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QUANTE STORIE 2021 è la nuova rubrica che raccoglierà la voglia di vivere il nuovo anno al meglio.
Inviateci uno scritto da 2021 battute, non di più e che racchiuda un sogno, un traguardo o una vittoria personale, nella vita o nello sport.
Con QUANTE STORIE 2021 vogliamo raccontare le vostre storie.
Condividere le energie profuse affinché il 2021 sarà un anno di rinascita sociale e personale.
Perché lo sappiamo che torneremo a stringerci la mano e a correre uno accanto all’altro, ogni giorno, nel lavoro e nello sport.
Per tenere alta la fiducia nel domani ci piacerebbe leggere nelle vostre storie un motivo in più per stare meglio.
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Nello sport, così come nella vita, ogni risultato si ottiene attraverso un lavoro lungo e faticoso, costante e impegnativo.
La medaglia conquistata ha un doppio valore: il “diritto” quale specchio della vittoria e il “rovescio” simbolo della fatica profusa per vincerla.
Da sempre lo sport è un mezzo per la formazione di uomini che affrontano le sfide della vita, insegnando loro a sopportare la fatica e a lavorare con determinazione per raggiungere un traguardo.
Grazie ad esso si impara a contare su se stessi ma anche a cooperare con i compagni di squadra.
L’attività fisica è fondamentale per la società, perché oltre ad insegnare a comportarsi nel rispetto delle regole, garantisce un adeguato equilibrio fisico e mentale ai cittadini.
Per alcuni può rappresentare un semplice passatempo, per altri può essere un lavoro, mentre per altri ancora è un “salva vita”.
Si può definire così perché diventa una valida alternativa a inevitabili situazioni difficili in cui vivono molti giovani: è un modo per evadere dalla realtà quotidiana, uno sfogo per liberarsi dallo stress.
Durante l’attività sportiva, sopratutto nelle gare, la competizione e l’aggressività sono necessarie per raggiungere il risultato, queste, tuttavia, devono essere adeguate al rispetto degli avversari, delle regole sportive, e del proprio corpo.
Molte vicende sportive ci hanno purtroppo dimostrato che il traguardo si può conseguire anche senza rispettare i diritti e i doveri di una competizione, utilizzando scorciatoie quali, ad esempio, le sostanze dopanti.
Il solo pensiero di voler provare a vincere in tal modo, rappresenta il rifiuto dei principi universali su cui si fonda lo sport.
Se è vero che esso è lo specchio della vita, noi giovani dovremmo prendere esempio dalle vicende di atleti che hanno rispettato le regole, mostrando solidarietà con avversari anche a discapito del loro risultato finale.
Così accadde per la vicenda dei fratelli britannici Brownlee.
Durante i mondiali in Messico uno dei due fratelli, Jonny Brownlee, accusò, a pochi metri dalla vittoria, un forte colpo di calore: un assistente provò a condurlo fuori dalla pista, proprio quando alle sue spalle arrivava fratello Alistair, anche lui in gara, che invece lo sorresse accompagnandolo fino al traguardo.
Sul quel podio salì al primo posto il sudafricano Shoeman, ma a nessuno importò perché tutta l’attenzione era rivolta ai due fratelli e al gesto di altruismo a cui avevano tutti assistito.
Un altro episodio da prendere come esempio di altruismo è quello che coinvolse Michael Phelps durante le Olimpiadi di Atene del 2004, in cui vinse ben sei medaglie d’oro.
Il nuotatore americano, invece di provare a vincere la settima medaglia, partecipando alla staffetta 4 x 100 mista, lasciò gareggiare un altro compagno di squadra dandogli la possibilità di salire sul podio.
Fu un gesto semplice che non influì negativamente sulla carriera di Michael, bensì gli fece acquisire ancora più prestigio, non solo come atleta, ma anche come persona, facendo vivere un’emozione grandissima a chi altrimenti non ne avrebbe avuto l’occasione.
Purtroppo, sono altrettanto frequenti i casi di atleti che, per raggiungere a tutti i costi il risultato migliore, non rispettano né le regole delle competizioni e né gli avversari.
Questo comportamento può essere causato non solo dall’ambizione sfrenata ma anche dall’ambiente che circonda l’atleta: gli allenatori e le persone che ricavano profitto dalla sua vittoria possono spingerlo a infrangere le regole.
A questo proposito, l’episodio che mi ha molto delusa, ha riguardato la squalifica di uno dei nuotatori cinesi più forte di sempre: Sun Yang.
Già durante le Olimpiadi di Rio de Janeiro era stato definito come un “dopato imbroglione” da molti atleti presenti alla manifestazione.
Riuscì a sfuggire più volte dal controllo antidoping, distruggendo addirittura una delle provette contenente un prelievo di sangue fattogli inaspettatamente.
Dopo varie udienze e complicazioni nel processo, a febbraio del 2020, il Tribunale arbitrale dello sport di Losanna lo ha squalificato per otto anni con l’accusa di doping.
Gli stessi atleti, che fin dalle Olimpiadi del 2016, avevano capito il motivo dello strano comportamento del campione Cinese, protestarono.
Il paladino di questa protesta fu il nuotatore Marck Horton, che già ai mondiali di Gwangju del 2019, durante la cerimonia di premiazione della gara 400 metri stile libero, decise di non salire sul podio al fianco di Sun Yang.
Il nuotatore cinese, nonostante la protesta di Horton, salì sul gradino più alto del podio, senza stringere la mano agli avversari e adottando un atteggiamento molto arrogante e poco sportivo.
I video e le foto di quella cerimonia fecero in poco tempo il giro del mondo e crearono scalpore tra tutti gli appassionati del nuoto, i quali da sempre definivano Sun Yang un atleta leale e un esempio da seguire.
Anche il campione del mondo Gregorio Paltrineri, che molto spesso si era trovato a dover gareggiare contro Sun Yang, rimase molto deluso e rattristato dal comportamento dell’avversario.
In un’intervista disse che non riusciva a gioire per il verdetto della sentenza, e che era molto dispiaciuto perché , fin da quando era piccolo, Sun Yang rappresentava il campione che un giorno avrebbe voluto battere sfidandolo fianco a fianco nelle competizioni internazionali.
Il numero di atleti che si comporta come Sun Yang è sempre più in aumento e in molte occasioni il mondo dello sport riesce far passare inosservati certi comportamenti non sanzionandoli propriamente.
Ciò rappresenta un problema non solo dal punto di vista morale ma anche per il cattivo esempio che si dà agli atleti più giovani, i quali non sarebbero più stimolati ad impegnarsi duramente, preferendo usare scorciatoie per raggiungere il risultato migliore.
Nello sport, come anche nella vita di tutti i giorni, ci saranno sempre queste persone, di conseguenza, sta ad ognuno di noi scegliere come raggiungere l’obiettivo prefissato e a chi ispirarci per farlo.
Lo sport mi ha insegnato tanto, ed essendo ormai da anni nel settore agonistico, ho imparato a riconoscere gli atleti leali da prendere come punto di riferimento perché, purtroppo anche in competizioni di livello inferiore si verificano casi del genere.
Senza dubbio sono di più coloro che si comportano correttamente alle competizioni;
Queste persone, che sono sia atleti che allenatori, mi hanno resa come sono oggi: mi hanno aiutato, così come le tante esperienze fatte nel nuoto, a sviluppare una forte determinazione, e a rialzarmi dopo un fallimento.
Sono sicura che il duro lavoro e i tanti sacrifici fatti durante questi anni saranno ripagati nella mia carriera sportiva e nella vita da adulta che mi aspetta.
Giulia Raffaelli
Questa è la storia del più grande coach di tutti i tempi. L’allenatore che ha rivoluzionato il mondo della pallavolo, conquistato 2 ori mondiali, 3 europei, 5 titoli della World League e un argento alle Olimpiadi.
Julio Velasco è stato l’unico coach al mondo che ha vinto il titolo continentale in due continenti diversi (Europa e Asia).
Per comprendere meglio la rivoluzione generata da questo argentino caparbio e visionario ne abbiamo parlato con chi della pallavolo ne ha fatto una filosofia di vita.
Claudio Gervasoni è un amico che sotto rete ci ha passato tutta la sua gioventù e ancora oggi allena ragazzi per farli arrivare sempre più in alto e non solo a muro o schiacciando contro gli avversari.
Prima di Velasco la tecnica era un modello astratto ideale, il bagher era un esercizio da ripetere 100 volte contro un muro, legato alla biomeccanica del movimento per raggiungere una perfezione tecnica assoluta.
Negli anni 80, ricorda Claudio, la tecnica analitica primeggiava, ciò che fece Velasco fu stravolgere questo approccio, per cui la tecnica doveva essere calata nel gioco attraverso un METODO GLOBALE.
Questa fu la novità incredibile mai provata da nessuno (negli sport di squadra) fino a quel momento si intende.
La fortuna volle che Velasco si trovò ad allenare, nel posto e al momento giusto, un gruppo di ragazzi che aveva maturato una tecnica perfetta.
Parliamo di quella “generazione di fenomeni” che costituirono l’ossatura della nazionale italiana maschile nel corso degli anni ‘90, considerata una delle formazioni più forti di tutti i tempi.
Il gruppo con Giani, Lucchetta, Zorzi, Bernardi, Papi per citarne alcuni, Velasco li ha messi in campo con il suo metodo globale e il miracolo venne fuori.
Non solo cambiò il metodo di allenamento inteso come sviluppo della tecnica in campo in situazione di stress ma cambiò perfino la risposta del giocatore alla palla, così come l’avevamo vista fino a quel momento
Claudio Gervasoni conosce ogni aspetto di questa rivoluzione teorica e pratica messa in atto da Julio Velasco comprese le sue frasi famose sulla reazione in campo dei suoi giocatori:
la situazione è com’è, non come pensiamo noi che sia o come vorremmo che fosse
I ragazzi della nazionale erano giocatori così tecnici che avevano già fatto un cambiamento, grazie ad Aleksander Skiba, il quale a metà degli anni 80 aveva lavorato su quel gruppo spianando la strada alla visione del metodo Velasco, vincendo l’argento ai mondiali dell’85 al preparatore argentino non restò che accendere la miccia.
Il coach de La Plata ebbe l’intuizione di applicare la tecnica sapendo che una situazione di gioco cambia in base al ruolo.
Schiacciò sapendo che avrebbe trovato il muro avversario da cui la palla sarebbe stata imprendibile per i cubani, non si curò di vedere dove l’avrebbe mandata, ma solo di intercettare le mani avversarie e fu punto.
Era il 28 ottobre 1990 a gli azzurri battevano 3-1 Cuba in finale e conquistando il titolo per la prima volta nella loro storia.
Era un tecnica di Velasco, approfitta della situazione e schiaccia forte.
Velasco è argentino, 68 anni e oggi le sue lezioni di leadership sono ormai leggenda. Nasce professionalmente come insegnante di filosofia, giocatore e poi allenatore di volley.
Scappa dall’argentina dei colonnelli e approda a Jesi. Da lì una serie di fattori si allineano alla perfezione i quali hanno fatto uscire fuori prima l’uomo e poi il tecnico che dalla A nella cittadina marchigiana, si sposta nel tempio della pallavolo mondiale, a Modena dove vince 4 scudetti e prende le redini della nazionale.
Ma spesso le situazioni favorevoli sono illuminate da incontri che esaltano le doti degli uomini e quello con Marco Paolini, che nella stagione 1985/86 è stato l’allenatore più giovane di tutta la Serie A1, fu ancora più importante per Velasco.
Paolini a quel tempo ha una sua visione apocrifa del gioco, creando una sintesi di tanti giochi, giapponese americano per citarne alcuni per approdare a un mix fatto di metodo globale e tecnica in campo, i quali diventano i fire starter dell’era di Velasco.
La squadra della nazionale venne costruita su un approccio antropomorfo.
La “generazione dei fenomeni” era già il frutto di una ricerca dei talenti anche in base alle caratteristiche fisiche che servono per giocare a pallavolo.
Ragazzi tutti uguali tra loro, i 2 metri di altezza era la regola ma non solo, anche la tecnica doveva rispettare caratteristiche antropomorfe, se non eri sopra ai due metri dovevi saper palleggiare come un dio e così era per Bernardi che non era sopra i 2 metri.
Cosa resta del metodo Velasco?
La sua rivoluzione ha fatto sì che molti dei più giovani non ricordano l’approccio analitico al volley.
Oggi ogni situazione di gioco è studiata al millimetro, ogni tecnica applicata in campo segue la teoria dello scouting grazie alla quale applico un voto sulle parti del gioco dei singoli e le analizzo con tecnologie adeguate fino a rivedere ogni volta come si muove un giocatore e così vengono fuori punti deboli e potenzialità.
La tecnica è la tattica della vita dice Claudio facendo sua la frase di Oswald Spengler.
Oggi Velasco è direttore tecnico del settore giovanile della federazione e ha pensato bene, nell’ottica di sviluppare tutto il gioco su ogni ragazzo, che gli under 14 non fanno più la battuta con il salto, non serve perdere ore e ore di allenamento per sviluppare una fase di gioco quando è indispensabile saperle affrontarle tutte.
La rivoluzione metodologica di Velasco lo ha portato ad avere a bordo campo lo psicologo dello sport, una figura nuova che sapeva leggere le partite e i giocatori con metodo innovativo.
Bruna Rossi fu la psicologa dell’Italia di volley e di pallanuoto di Rusic, il quale aveva la stessa visione di Velasco.
Oggi ci piace pensare che la rivoluzione di Velasco sia da applicare anche nella vita perché come dice spesso lui parlando degli anni che passano
“Ho 67 anni e faccio fatica a sentirmi “vecchio” ad associarmi a quella parola. Forse dovremmo inventarne altre, la vita raddoppia le sue stagioni, anche per l’adolescenza che ora dura dai 15 ai 25 anni. Il fascino del lavoro è la creatività, il poter pensare cose nuove. La giovinezza, a prescindere dall’età, è continuare a risolvere i problemi.”
Grazie Coach.
Oggi conosciamo una squadra di running nata dentro uno dei centri sportivi più belli di Roma: il Due Ponti Sporting Club.
Il circolo nasce nel 1992 dall’idea di Emanuele e Pietro Tornaboni di costruire una struttura extra large e polivalente, in cui poter trovare risposta a tutte le esigenze di sport e tempo libero. Il centro sportivo si trova nel quadrante nord della Capitale subito a ridosso di Via Flaminia, in via di Due Ponti. Read more »
Negli anni in cui molti di noi gridavano il loro primo vagito al mondo, ignari del significato di parole come discriminazione sessuale, emancipazione femminile, parità di genere, una storica partita di tennis si tenne sui campi dello Houston Astrodome, in Texas, USA. Read more »
Sono una mamma runner e vado sempre di corsa anche quando non dovrei.
Mi sono avvicinata alla corsa 10 anni fa quando il mio corpo, dopo due gravidanze ravvicinate, aveva assunto una forma quasi sferica e bisognava assolutamente fare qualcosa. Read more »
Da quando è scoppiata la pandemia gli psicologi dello sport hanno tanto parlato e si sono tanto occupati, giustamente, di come gli atleti hanno vissuto e gestito il periodo di fermo e la successiva ripartenza. Ma in pochi si sono chiesti come ha vissuto il blocco all’attività sportiva l’altra metà della mela: gli allenatori. Read more »
Il Giro d’Italia femminile viene organizzato per la prima volta nel 1988. Nel 2013 cambia nome: da Giro Donne a Giro Rosa.
E’ una corsa a tappe femminile di ciclismo su strada che si svolge ogni anno. E’ la più importante gara a tappe.
Dal 2016 è parte del World Tour femminile UCI.
Ma quanta fatica c’è prima, durante e dietro il Giro Rosa?
Ne abbiamo parlato con Costanza Martinelli, che ne ha fatti 3 di giri d’Italia. Read more »
Psicologia clinica dello sport: quando il benessere personale viene prima della performance
Bernard Dematteis è un campione di corsa in montagna.
Chissà quante volte nella fatica di raggiungere una vetta ha visto davanti a sé un muro nero, una parete che sembrava invalicabile.
Ma qualche giorno fa Bernard Dematteis, il Capitano, ci ha raccontato sul suo profilo Facebook di un altro muro nero, di un’altro tipo di parete che ad oggi gli sembra invalicabile:
“… il Capitano non è più lo stesso…il Capitano ha perso qualcosa…sono stufo di fingere che vada tutto bene o che vada bene lo stesso così…ormai è troppo tempo che lo faccio…e sono stanco di nascondere i miei problemi nella vita, come la depressione bastarda di cui soffro da anni e che molto spesso mi distrugge dentro e non mi lascia essere ciò che in realtà sono, sono stanco di far sembrare che il Capitano sia invincibile, perché non è così…”.
Il non riconoscersi, la vergogna per una malattia considerata ancora da molti un semplice “mal di vivere” che affligge i deboli e che può passare con una pacca sulla spalla o pensando che c’è chi sta peggio, il peso delle aspettative altrui…in questo post ci sono tutti gli elementi che caratterizzano lo stigma che ancora c’è intorno al disagio mentale.
Se un atleta annuncia un temporaneo allontanamento dalle competizioni per curare un tendine lesionato o un muscolo strappato di solito non deve temere di perdere lo sponsor o il posto in Nazionale, se invece ha un problema di tipo psicologico allora probabilmente è meglio starsene zitti e fare finta che vada tutto bene. Federazioni, allenatori, aziende di sponsorizzazioni guardano con sospetto la malattia mentale, i fans forse no, ma non sono certa che tra i 306 che ad oggi hanno commentato il post tutti esprimano sincero incoraggiamento…o lo farebbero se a dichiarare di soffrire di depressione fossero lo zio o la sorella.
La depressione non esiste, chi dice di soffrirne è uno che si lamenta e basta; il pregiudizio (che cela paura per qualcosa troppo complesso da capire) è forte.
Altri atleti famosi ci hanno raccontato dei loro problemi psicologici (Andre Agassi, Federica Pellegrini, Michael Phelps solo per citarne alcuni), ma di solito lo hanno fatto dopo, quando ne sono usciti: raccontano la guarigione, spiegano perché per un periodo non sono andati forte o lo sono andati meno.
Anche queste testimonianze sono importanti, anzi, lo sono tantissimo, ma l’outing di Bernard forse lo è ancora di più perché esprime il dolore e la paura di non farcela, l’incertezza della riuscita, il desiderio di gettare la maschera e provare a stare meglio, ma anche il timore di non riuscire a tornare più quello di prima. “ …Non so come potrò riuscire a farlo, e forse non ci riuscirò, ma devo cercare di ritrovare e di riconquistare quello che ho perso per tornare a vivere…”.
E allora Bernard dovrà affidarsi ad uno professionista, un bravo specialista, uno psicologo-psicoterapeuta che lo accompagni nella faticosa strada verso la guarigione.
Se poi il professionista è anche specializzato in psicologia dello sport sarà ancora meglio.
Infatti che lo psicoterapeuta che prende in carico l’atleta con disagio psicologico sia esperto delle dinamiche collegate allo sport, della doppia crisi identitaria (“non sono più io” tipico della depressione e in più, sospendendo l’attività agonistica, non sono più un atleta…quindi chi sono?) a cui il paziente atleta va incontro, delle pressioni, reali o percepite, che possono essere operate da parte dell’entourage, è sicuramente un elemento aggiuntivo che può meglio sostenere l’atleta nel suo percorso di cura.
E allora buon lavoro Bernard!
E buon lavoro a tutti quelli che, come Bernard, hanno deciso di mettere le mani nel vischioso buco nero in cui sono caduti.
Cecilia Somigli
cecilia.somigli @ gmail.com
Qualche giorno fa ho chiesto agli amici in rete “se doveste scegliere di fare un altro sport che non sia corsa, bici, nuoto quale sport fareste?
Sono arrivati più di 190 commenti con relative risposte di sport alternativi alla classica triplice.
La domanda è nata dopo una chiacchierata con un amico, dove ponevo al centro della questione l’incapacità in età adulta di vedere attività sportive diverse da quelle che ormai da anni ci fanno una sana compagna quotidiana. Read more »