Una foto, nessuna foto e centomila corse

La scorsa settimana ho scritto un post dove chiedevo agli amici se, dopo oltre 13 anni di social network, pubblicare la foto della corsa del giorno, con i relativi tempi e la velocità, avesse ancora lo stesso valore.

La questione non voleva essere una critica. Almeno una volta lo abbiamo fatto tutti.

La domanda era per capire il significato che ognuno di noi dà alla pubblicazione (o non pubblicazione) di un’immagine che negli anni si ripete sempre uguale a se stessa.

Ci sono stati ottimi spunti, dai più semplici a quelli sociologicamente più articolati.

Per Roberto Nava è lo stesso motivo per il quale si ascoltano ancora le canzoni degli anni ’80, anche se la musica è totalmente cambiata. E mentre i social, al pari della musica, hanno fatto passi da giganti negli ultimi 5 anni, c’è comunque una parte di noi che non rinuncia a del sano passatismo, rassicurante e inclusivo.

Ma di base pubblichiamo sempre la stessa foto perché ci fa stare bene, ci identifica quando il post è contingente al momento, appena finito di correre: stai bene, ti senti bene e lo vuoi raccontare nel modo più diretto e comprensibile a tutti.

Ma quanti di voi pensano che se non mettessi la foto sarebbe come non aver corso, chiede Chiara Catalani?

Per questo i social network sono i mezzi ideali per esprimere la nostra vanità. Di conseguenza, come spiega Sabrina Schillaci, ricerchiamo ammirazione, approvazione, se la nostra autostima è un po’ carente. Una volta ci si vantava al bar di quanto si era bravi, capaci, belli e di ciò di cui si era in possesso. Oggi abbiamo i social e, pur considerando inviolabile la nostra privacy, postiamo qualsiasi cosa. Salvo poi prendercela se veniamo giudicati, o peggio criticati e derisi. Il bello e il brutto dell’essere sempre in prima fila.

Cosa succederà in futuro, per i prossimi 12 anni intendo?

Ovviamente nulla, staremo qui a porci la stessa domanda, perché per molti è abitudine, una sorta di diario personale.

Usare in un determinato modo un social ha a che fare con l’età di chi pubblica e, ovviamente, con la propria indole. Se vivi il social per quello che è, condividendo con la comunità la ragione per cui sei lì dentro, ok, ma se postassi tutti i giorni i dati del tuo lavoro non interesserebbe a nessuno, giusto?

Infatti, come ha argomentato Mirko Lalli: “se smettessimo di postare e condividere il sentimento di benessere, l’amore per lo sport, la passione ed il sacrificio fisico e tutto ciò che di positivo trasmette una bella foto post allenamento, rimarrebbe solamente la parte oscura e noiosa dei social. Io preferisco vedere 1000 foto uguali di persone che fanno sport, che 1000 post diversi di politica, medicina, geopolitica e simili. Frustranti e negativi.  Fortunatamente mi stimolano e mi contagiano le immagini di sport praticato.

Così penso che sia bello contribuire a stimolare qualcuno a muovere il culo, a staccarsi dalla virologia ed iniziare a volersi bene, praticando sport. In fondo, senza questo messaggio costante e continuo, molti non avrebbero mai iniziato a correre o a muoversi “.

Alla base c’è la differenza tra condivisione ed esibizionismo.

Se condividi un pensiero, spiega Sandro Siviero, una storia che può essere utile a qualcuno, in cui la prestazione ha un ruolo e può far iniziare una conversazione interessante, allora ha un senso. Altrimenti è puro esibizionismo e ricerca di consenso di cui si può fare volentieri a meno. E, in alcuni casi, arriva al celolunghismo.

A proposito della ritualità del gesto, Federico Procopio non ha mezzi termini: “ci sono persone che evolvono (prima o poi) e altre che non riescono. Il social accelera questo processo, poiché funziona da catalizzatore di idee e comunicazioni. Il rimanere ancorato alla foto con i dettagli del proprio allenamento era divertente quando all’inizio (io parlo della prima Nike Community) era un modo nuovo per confrontarsi e prendere (e dare) stimoli. Ma era nuovo. L’idea che ci si potesse confrontare con gente sconosciuta e di altre nazioni era una figata. Se oggi lo fai è per far sapere agli altri che hai corso e i commenti di incitamento annessi sono più per compassione e pietà che per reale coinvolgimento (o per simpatia).”

“Poi se uno corre al di fuori degli standard (come passo o km o entrambi) allora il discorso è diverso, c’è un necessità di soddisfare il proprio ego facendo vedere agli altri (tapasci) che vai oltre …”

“Dopo tutti questi anni”, come dice Antonello Balzano, “sono contento quando posto una foto delle mie corse ed ho la stessa passione ed entusiasmo di 12 anni fa, mi piace condividerlo sperando che qualcuno possa apprezzare questo sport che dà sollievo sia a livello fisico che mentale.”

Facile no?

Allora è una peculiarità di chi corre? O lo fanno anche gli appassionati di tiro con l’arco?

Alla base c’è sempre una comunità, conferma Gianandrea Facchini, e condividere fa comunità, endorfine e la cosa bella è che si postano tempi molto buoni e tempi meno buoni, ma con lo stesso orgoglio. Sono conquiste frutto di sudore e passione ed è bello condividerle. Perché, specialmente in un periodo così, hai bisogno di condividere qualcosa che ti fa stare bene.

Come se volessi contagiare con il tuo stato d’animo il resto del mondo a rialzarsi in piedi e iniziare a vivere!

Buona corsa a tutti foto comprese!