Pensieri e amici in corsa

​1. Quando dico che non si può correre e pensare allo stesso tempo, la gente di solito mi guarda strano.

Allora cerco di spiegarmi meglio. E dico: quando io corro forte, non riesco a ragionare in maniera coerente. Nella mia testa si inseguono immagini, brani di musica, frammenti di pensieri che avrebbero anche un inizio uno sviluppo e una fine, ma mentre faccio fatica vanno e vengono senza riuscire a completarsi.

Per rendere meglio l’idea racconto di Emil Zatopek, il mio eroe numero uno per quello che riguarda l’atletica leggera e la fatica: se qualcuno gli faceva notare che il suo volto, quando era sotto sforzo, mostrava una terribile sofferenza, lui rispondeva di non avere abbastanza talento per correre e sorridere insieme.

Grande, inimitabile, irraggiungibile Emil.

A quel punto posso concludere dicendo che io non soltanto non riesco a sorridere, ma nemmeno a pensare mentre corro.

​Spesso mi chiedo: ma qualcuno ci riesce? E soprattutto: vale la pena di (cercare di) pensare mentre si corre, oppure è meglio trarre beneficio da questo momentary lapse of reason, come avrebbero detto David Gilmour e i Pink Floyd?

​Questione controversa. In quasi quarant’anni di allenamenti e gare podistiche ho percorso certamente più di 150.000 chilometri: questo significa che ho passato almeno 12.500 ore della mia vita a correre. Ammettiamo pure che per circa metà del tempo io abbia corso a ritmi bassi, nei giorni di recupero, spesso chiacchierando con i miei compagni di allenamento: restano comunque migliaia di ore passate senza poter pensare a nulla.

È stato uno spreco o un vantaggio?

​Non credo sia una domanda oziosa. Non succede a molti di passare tanto tempo a mente libera; soprattutto non succede in modo naturale: di solito, da quando ci svegliamo a quando ci abbandoniamo tra le braccia del Sonno, passiamo tutto il nostro tempo a pensare a qualcosa. Non sempre farlo ci serve davvero: ma la mente lavora, brucia, gira in tondo, a volte si va a incagliare in secche pericolose come una nave sballottata da una tempesta. La quiete della mente vuota è una cosa molto rara, e benefica: le filosofie orientali insegnano a raggiungerla attraverso severi esercizi di meditazione. Il corridore, quando fa davvero fatica, raggiunge una condizione molto simile a quello che i giapponesi chiamano mushin «la mente vuota».

I samurai descrivevano tre stati mentali necessari al guerriero:.

zanshin, ovvero la «mente pronta», capace di prendere piena coscienza di una situazione e metterne a fuoco ogni particolare;

fudoshin, la «mente in equilibrio», purificata dagli eccessi delle passioni;

e infine mushin, la «mente vuota», libera, e per questo pronta ad affrontare qualsiasi difficoltà ed a guidare l’azione del corpo in maniera immediata, in accordo profondo con l’istinto.

​Un giorno, molti anni fa, descrissi a un maestro zen la strana «assenza di pensieri» che si prova durante la corsa. Lui mi disse: «abbracciala, è un dono». Il mushin è una condizione da apprezzare e sfruttare per avere la mente pronta ad agire quando serve davvero. La corsa può produrre questo piccolo miracolo: nelle stesse ore che le dedichiamo, riesce a stancare il fisico e riposare l’anima.

​2. Non è facile fare amicizia a quasi sessant’anni.

Forse siamo ormai troppo avanti sulla nostra strada per curarci davvero di uno sconosciuto che si avvicina per caso; troppo sicuri di quello che sappiamo, di quello che ci piace e non ci piace, per rimetterci di nuovo in gioco e condividere esperienze, emozioni, speranze.

Perché questo significa essere amici, almeno per me: condividere le cose che contano.

Senza reticenze, senza paura di essere giudicati, con la consapevolezza di poter trovare chi è disposto ad ascoltare e comprendere quello che siamo e che stiamo diventando. Un «altro» non necessariamente simile, non necessariamente pronto ad approvare le nostre scelte, ma che ci sosterrà comunque nei momenti difficili.

​Premessa necessaria per la breve storia di corsa, pensieri e amicizia che state per leggere. Immaginate la scena: piazza Vittorio, per mia fortuna la più grande di Roma, settecento metri di perimetro illuminato e scorrevole – bisogna solo evitare qualche gatto che abita tra i ruderi del giardino e ogni tanto va a spasso oltre la cancellata.

È l’alba di un giorno di marzo, durante il primo lockdown; io abito all’angolo nord-est della piazza e posso andare a correre quasi senza  trasgredire le rigide norme del decreto anti-covid (bisognerebbe stare a duecento metri da casa, io mi allontano al massimo di circa quattrocento).

Ho preso l’abitudine di fare quindici giri, ovvero 10.500 metri; di meno mi sembra inutile, di più mi sembra di essere un criceto nella ruota. Dopo i primi due o tre giri di solito raggiungo una velocità di crociera attorno ai 4’30” al chilometro e vado avanti così, tanto per non perdere la forma. Tutto bene: ma quella particolare mattina, verso la metà del quarto giro, un altro runner mi passa senza nemmeno degnarmi di uno sguardo.

Piazza Vittorio a Roma

Non è una cosa a cui sono abituato, devo confessare. Cambio ritmo e mi metto alla sua andatura, un paio di metri dietro, ma dopo un paio di minuti devo mollare. «‘Fanculo», penso… Sì, stavolta riesco a pensare, e il fumetto che mi si forma sopra la testa dice proprio «’fanculo», e poi continua «sto proprio messo male…»

Perché giusto due anni fa arrivavo terzo ai campionati italiani master di maratona, categoria over 55, in 2h49’, e adesso non sono nemmeno il primo di piazza Vittorio. Nemmeno della mia classe di età, perché quello che mi ha superato e staccato non sembra più giovane di me.

Pazienza. L’atletica è così: se uno va forte va forte, c’è poco da fare.

E se uno va piano deve lavorare per andare più forte, inutile farsi il sangue cattivo.

Mi rimetto alla mia andatura. Passano un paio di giri e vedo «quello veloce» che mi viene incontro, evidentemente dopo aver cambiato senso di marcia. Si allarga, mi affianca, mi saluta e ci scambiamo qualche formula di cortesia.

Io: caspita quanto andavi forte;

lui: sì, insomma, ma stavo facendo delle ripetute;

io: non ti stavo dietro;

lui: ti ho visto l’altra mattina e anche tu non andavi piano;

io: mica tanto, sono un po’ fuori forma, è difficile in questo periodo.

Schermaglie iniziali, tanto per capire che persona ti sta correndo al fianco.

In realtà gli sono grato di essere tornato indietro; scopriamo di essere nati nello stesso anno (1962) e di esserci incrociati in qualche gara – lui più veloce sul corto, io sulla maratona.

Due vecchie glorie sul viale del tramonto, insomma, ma con ancora tanta voglia di correre. E succede la cosa più bella: ci rivediamo dopo due giorni, e poi dopo altri due, e diventiamo amici.

Lui è più forte e mi tira il collo spietatamente; io gli prometto vendetta quando tornerò in forma.

L’appuntamento è per i campionati master del 2022, quando entrambi passeremo nella categoria M60. Sui 5.000, sui 10.000, poi chissà.

​Già: chissà. Non sappiamo cosa ci riserva il futuro.

Ma il presente ci ha riservato una sorpresa rara, a quasi sessant’anni. Un nuovo amico. Con cui si ride, si scherza, si fa fatica. Si parla finché c’è fiato per farlo. Di tutto: lavoro, mogli, politica, allenamenti, passato e futuro. Poi si smette di parlare e anche di pensare – almeno io, che non ho abbastanza talento per pensare e correre insieme – ma con la bella sensazione di avere un accanto un compagno.

Gastone Breccia