Psicologia clinica dello sport: quando il benessere personale viene prima della performance
Bernard Dematteis è un campione di corsa in montagna.
Chissà quante volte nella fatica di raggiungere una vetta ha visto davanti a sé un muro nero, una parete che sembrava invalicabile.
Ma qualche giorno fa Bernard Dematteis, il Capitano, ci ha raccontato sul suo profilo Facebook di un altro muro nero, di un’altro tipo di parete che ad oggi gli sembra invalicabile:
“… il Capitano non è più lo stesso…il Capitano ha perso qualcosa…sono stufo di fingere che vada tutto bene o che vada bene lo stesso così…ormai è troppo tempo che lo faccio…e sono stanco di nascondere i miei problemi nella vita, come la depressione bastarda di cui soffro da anni e che molto spesso mi distrugge dentro e non mi lascia essere ciò che in realtà sono, sono stanco di far sembrare che il Capitano sia invincibile, perché non è così…”.
Il non riconoscersi, la vergogna per una malattia considerata ancora da molti un semplice “mal di vivere” che affligge i deboli e che può passare con una pacca sulla spalla o pensando che c’è chi sta peggio, il peso delle aspettative altrui…in questo post ci sono tutti gli elementi che caratterizzano lo stigma che ancora c’è intorno al disagio mentale.
Se un atleta annuncia un temporaneo allontanamento dalle competizioni per curare un tendine lesionato o un muscolo strappato di solito non deve temere di perdere lo sponsor o il posto in Nazionale, se invece ha un problema di tipo psicologico allora probabilmente è meglio starsene zitti e fare finta che vada tutto bene. Federazioni, allenatori, aziende di sponsorizzazioni guardano con sospetto la malattia mentale, i fans forse no, ma non sono certa che tra i 306 che ad oggi hanno commentato il post tutti esprimano sincero incoraggiamento…o lo farebbero se a dichiarare di soffrire di depressione fossero lo zio o la sorella.
La depressione non esiste, chi dice di soffrirne è uno che si lamenta e basta; il pregiudizio (che cela paura per qualcosa troppo complesso da capire) è forte.
Altri atleti famosi ci hanno raccontato dei loro problemi psicologici (Andre Agassi, Federica Pellegrini, Michael Phelps solo per citarne alcuni), ma di solito lo hanno fatto dopo, quando ne sono usciti: raccontano la guarigione, spiegano perché per un periodo non sono andati forte o lo sono andati meno.
Anche queste testimonianze sono importanti, anzi, lo sono tantissimo, ma l’outing di Bernard forse lo è ancora di più perché esprime il dolore e la paura di non farcela, l’incertezza della riuscita, il desiderio di gettare la maschera e provare a stare meglio, ma anche il timore di non riuscire a tornare più quello di prima. “ …Non so come potrò riuscire a farlo, e forse non ci riuscirò, ma devo cercare di ritrovare e di riconquistare quello che ho perso per tornare a vivere…”.
E allora Bernard dovrà affidarsi ad uno professionista, un bravo specialista, uno psicologo-psicoterapeuta che lo accompagni nella faticosa strada verso la guarigione.
Se poi il professionista è anche specializzato in psicologia dello sport sarà ancora meglio.
Esiste infatti un’area della psicologia dello sport che è la psicologia clinica dello sport che si occupa primariamente del recupero del benessere personale lasciando in secondo piano il miglioramento della prestazione sportiva.
Infatti che lo psicoterapeuta che prende in carico l’atleta con disagio psicologico sia esperto delle dinamiche collegate allo sport, della doppia crisi identitaria (“non sono più io” tipico della depressione e in più, sospendendo l’attività agonistica, non sono più un atleta…quindi chi sono?) a cui il paziente atleta va incontro, delle pressioni, reali o percepite, che possono essere operate da parte dell’entourage, è sicuramente un elemento aggiuntivo che può meglio sostenere l’atleta nel suo percorso di cura.
E allora buon lavoro Bernard!
E buon lavoro a tutti quelli che, come Bernard, hanno deciso di mettere le mani nel vischioso buco nero in cui sono caduti.
Cecilia Somigli
cecilia.somigli @ gmail.com