È quello che sai che ti uccide
O è quello che non sai
Quando prepari una gara per la prima volta tutto è nuovo, anche se lo affronti con la presunzione di conoscerlo. Conosci quanto costa correre un’ora, anche quando proprio non ti va.
Conosci lo scricchiolio sospetto del ginocchio mentre ti alzi di notte perché tuo figlio ha sete e ti sei scordata di mettergli accanto un bicchiere pieno;
dunque nella tua mente malata prefiguri che il ragazzino rotoli nel buio e inciampi nel gatto, nei suoi libri, nel mare magnum del casino domestico, che insomma si rompa mentre, invece, quella rotta nel cervello e nel ginocchio sei tu.
In realtà ancora non sai un bel niente.
A mentire alle mani, al cuore, ai reni
Lasciandoti fottere forte
Per spingerti i presagi
Via dal cuore su in testa, sopprimerli
questo verso non l’ho mai capito. Però suona bene e lo lascio là, da solo, a libera interpretazione del podista sentimentale.
(lasciandoti fottere forte però è un messaggio chiaro, fa riferimento al tempo e alla vita che regali alla corsa, ma soprattutto all’alcol e al cibo spazzatura non mangiato, che nessuno ti restituirà più)
Non sai
Non sai che l’amore è una patologia
Saprò come estirparla via
Ho terminato la prima maratona di Roma nell’aprile duemila sedici, impiegando la bellezza di cinque ore e mezzo. L’ho intrapresa con ingenuità deprecabile: non ero mai andata oltre i 21 km e pensavo che, una volta arrivata a metà, tanto poi toccava da fallo uguale a prima, ve’?
Non mi sono pentita, nonostante il biasimo dei puristi (che disonore, questa non è corsa, hai infangato la regina, stai peccando di presunzione, anatema, complotto e sacrilegio). Tutta esperienza, estrema magrezza ed eroiche foto nel sole. A distanza di anni e alla luce del presente, ciò basta.
Il mio amico Simone mi ha abbracciata e ha detto “complimenti, MARATONETA!”.
Ciò basta per una vita intera.
E’ stata una sconfitta meravigliosa, nel pieno stile della podista entusiasta, quella che si porta dentro da quarant’anni un ottimismo immotivato e per la quale ogni cosa ha un senso, anche i peggiori fallimenti.
Otto mesi dopo ho migliorato il record sulla distanza di ben un’ora e dieci. Anche questo risultato mediocre ha fatto sbraitare tutti gli atleti, ivi compreso il mio allenatore. Ciao allenatore di allora!, ti porto con estremo affetto nel cuore, perché anche tu sei stato una sconfitta meravigliosa e nessuno mai mi ha spinta così in alto.
Dice il saggio: la corsa è terapia per quelli che non hanno bisogno di terapia. Dal momento che vado in analisi ad anni alterni e con alterne fortune, preferisco pensare che la corsa sia una patologia da cui non guarire.
Dopo due anni dall’ultimo pettorale, due dosi di vaccino, cinque chili guadagnati nel lockdown e persi dopo, una tonnellata di capelli tagliati, dico a tutti che non sento ancora la necessità di riprendere a gareggiare. Faccio i miei chilometri in solitaria, ascoltando i soliti audiolibri: voglio essere la versione più felice di me, non necessariamente la migliore.
Ah, quindi rifanno la staffetta monte-mare con le mucche di notte?
E quella con il vino, quella del fango e dei mille km in più?
Quella dove so’ arrivata zuppa e coi codini mosci? Dove ci si iscrive?
(versi: Afterhours – Ci sono molti modi)