Quanta fatica in questi 20 lunghi anni per conquistare quei diritti che in un paese come l’Afganistan erano da sempre negati.
Diritti e libertà che verranno di nuovo soppressi dove le prime vittime saranno sicuramente le donne. Un burqa per nascondere femminilità, sguardi, sorrisi e libertà.
Per le strade il terrore e nelle case il silenzio ad aspettare qualcuno che deciderà la tua sorte.
In questi giorni una donna ha iniziato con coraggio un viaggio da Herat e seguendo la stella della speranza, ha conquistato km e km di libertà.
Lei che nella vita voleva studiare e correre con la bici, 25 anni e una vita davanti a sé.
È fuggita in sella ai suoi sogni lasciandosi alle spalle il dolore e la paura di non poter più vivere liberamente.
Questa ragazza fa parte di una squadra di 50 cicliste donne che a marzo hanno iniziato a pedalare (entrando a far parte della federazione ciclistica) per le vie della città per dare un segnale di libertà, per dare coraggio alle proprie figlie e per tutte quelle bambine che immaginavano un futuro più tranquillo senza rischiare di essere prese a sassate o correre il rischio di essere investite di proposito.
Perchè per i talebani il ciclismo è un tabù, un vero scandalo, un disonore.
Motivo per cui per questa ragazza in fuga, di cui non conosciamo per motivi di sicurezza il nome, sono intervenuti gli stati USA traendola in salvo.
Il suo è stato un viaggio difficile pieno di pericoli e soste, perché l’Afghanistan è un Paese dove si muore e se sei nata donna, non indossi il burqa e non sottostai alle regole, il rischio di morire è ancora più alto.
Una fuga iniziata da Herat, per lei e per le altre cicliste, percorrendo strade, cambiando continuamente posto per passare la notte e non essere intercettate. Chilometri e chilometri pieni di luce e di speranza.
Si è nascosta, fino ad arrivare in Quatar in uno dei campi allestiti per ospitare i profughi afgani.
Lei è stata la prima donna ad essere tratta in salvo.
“La parte più difficile del viaggio è stato il percorso finale verso l’aeroporto. Tante persone tornano indietro e sappiamo che si può morire. Ricorderò per sempre quando sono arrivata ai cancelli. Era di sabato e c’erano i militari americani e un talebano, ma io mi sono salvata perché il mio nome era sulla lista delle persone che avevano il posto su un aereo. So di essere stata fortunata, ma sono preoccupata per la mia famiglia che non potrà raggiungermi. Loro non hanno nessun contatto e quindi non c’è un aereo per loro e non hanno questa mia stessa opportunità”.
Le ragazze del ciclismo afghano, come in una prova contro il tempo hanno viaggiato di notte e il giorno sono rimaste nascoste, senza spostarsi. Due erano nascoste in un hotel, quando sono state raggiunte dai talebani e spinte a forza in una stanza, ma sono riuscite a fuggire e sulla strada verso Kabul i loro occhi si sono riempiti di paura, di desolazione e di cadaveri abbandonati a terra.
Un piccolo gruppo formato da alcune di queste atlete qualche giorno fa aveva provato ad andare in aeroporto, perché i loro nomi erano in quell’elenco messo in piedi dalla Unione Ciclistica Internazionale, che per prima ha coordinato i vari Paesi e ha aperto dei tavoli diplomatici, in cui ad ogni Nazione, attraverso la propria federazione ciclistica, è stata richiesta la partecipazione, garantendo un certo numero di posti sugli aerei a queste ragazze.
Ora le cicliste di Herat, dopo aver percorso più di 800 km nel buio della notte, sono finalmente in viaggio verso la libertà.
Alcune di loro sono già arrivate e sono al sicuro, altre presto lo saranno.