Una volta ho letto che i bambini sono nati per correre, senza fatica, almeno fino ai 10 anni.
Non mi riferisco a quelle storie estreme di ragazzi a cui i genitori impongono gare su distanze da adulti, ma alla corsa spontanea: l’inseguimento di un amico durante un gioco, la rincorsa a un pallone che rotola, o lo sprint verso casa perché è tardi la sera.
C’è un momento preciso, tra i 7 e i 10 anni, in cui l’energia sembra essere infinita, un surplus che va scaricato attraverso il movimento. In quel periodo, correre diventa una necessità, un istinto naturale per liberare quella riserva di energia inesauribile.
In tanti anni di interviste con allenatori e preparatori atletici specializzati nell’allenamento di bambini, mi è stato sempre detto che per loro la corsa deve rimanere un gioco. Non si può imporre la fatica, bisogna farla percepire come parte di un’attività divertente. Giocare correndo è il miglior modo per piantare i semi che daranno frutti preziosi in futuro.
Il rischio arriva con l’adolescenza, quando si rendono conto che, sul tartan o sul campo, non c’è più solo gioco: resta il sacrificio e la fatica. È a questo punto che i preparatori devono lavorare su nuove dinamiche motivazionali.
Francesco Fagnani, nutrizionista di molti atleti d’élite, in una conversazione per Repubblica mi disse:
“Oggi i ragazzi non sono più abituati a correre, e quindi non sanno correre. Non saltano, non si arrampicano. Se chiedessimo a un gruppo di bambini di salire su un albero, sfido a trovarne più di due che lo sappiano fare decentemente.”
“La verità,” sostiene Fagnani, “è che, col passare dei decenni, i giovani diventano sempre più scoordinati e con scarsa propensione all’attività fisica. Sono venute meno quelle acquisizioni propriocettive che erano parte integrante del gioco di una volta. E mancano tutti quegli adattamenti biochimici e fisiologici che il nostro organismo dovrebbe sviluppare nei primi anni di vita, rendendoci più forti, veloci e resistenti, nel caso in cui decidessimo di allenarci con metodo.”
Eppure, io ricordo bene il cuore in gola e la milza che pungeva. Quando correvo senza le scarpe giuste, lanciandomi con l’impeto di un centometrista su una strada infinita.
Ricordo la nausea al traguardo, la sete che seccava la bocca, la fila alla fontanella, e quelle gambe che bruciavano per giorni.
Bastava poco per sentirci come Mennea, per credere di essere i più veloci fino alla macchina verde, il nostro traguardo, rispettato da tutti.