Io la maratona non la volevo fare. Mi sentivo impreparata, come all’università, quando la sera prima dell’esame mi coglieva il desiderio tremendo di non presentarmi.
Quando ho ritirato il pettorale ed ho letto il mio nome sotto la scritta “the marathon” mi sono chiesta come ci fossi finita io, donna da divano, a pensare di fare una maratona, non tanto a partirla, quanto a finirla.
E me lo sono ricordato, ci sono finita allacciando le scarpe un pomeriggio di agosto di quasi 3 anni fa, e facendo il primo passo giù dal divano.
E però mi faceva paura, non avevo fatto il lungo, non avevo abbastanza chilometri, e per settimane ho combattuto tra il desiderio di provare e la paura di non riuscire.
Eppure alla fine ho messo la sveglia alle 5 e sono uscita di casa col buio, ho preso la metro insieme ad altri sconosciuti con la mia stessa sacca trasparente, silenziosi e concentrati.
Sono arrivata al Colosseo che era quasi giorno, mi sono intrufolata tra le centinaia di palloncini dei pacer, alla ricerca del pacer del mio cuore (troppo veloce per le mie gambe), e della pacer che avevo scelto per me.
La partenza in mezzo alla musica e alla gioia di tutti, ai sorrisi che si vedevano anche dietro le mascherine.
È stata un’emozione potente, che è salita insieme ai chilometri.
Camminare nella mia città tutta per me, cantare, fare festa, sentire le persone che applaudivano intorno e dirmi che la stavo facendo davvero, che ero lì.
Sentire le gambe scaldarsi ma tenerle buone, ascoltarmi, rispettare il passo, tenere fede ai piedi, ai battiti, essere lì, come un lungo esercizio di mindfulness.
A 27 chilometri mi sentivo ancora carica e felice, avevo i piedi doloranti, ma sopportabili, ridevo, chiacchieravo e cantavo.
E aspettavo i 30, che sono arrivati, e mi facevano così paura. E ho iniziato a sentire l’emozione dentro montare, era quasi fatta, “solo” 12, che ci vuole.
E li ho rosicchiati, tenendo il passo con tenacia, per non perdermi, e intanto sentivo più vicino quell’abbraccio dell’arrivo che avevo immaginato così tante volte.
E al 41esimo ho iniziato a piangere, come una fontana, ma senza perdere il ritmo, restando in tecnica, come fosse il mio salvagente che mi avrebbe portato lì, oltre
la linea di arrivo, tra le braccia del pacer del mio cuore, a mettermi una medaglia al collo che mi riempie di stupore e meraviglia.
E mi fa sentire orgogliosa dei miei passi e della mia caparbietà, e del mio saper tenere, fino in fondo.
E lo dico a tutti, uomini e donne da divano, non credete alle storie che vi raccontate su voi stessi, non sono vere.
Siete capaci, potete farlo, tutti.
Un passo dopo l’altro, tra sudore e lacrime di gioia.
Il mondo fuori è pieno di sole e gioia, ed emozioni da portare a lungo nel cuore.
È pieno di esperienze che potete fare, basta iniziare a fare.
“L’audacia ha in sé genio, potere e magia”.
Giulia Vistoli