Un professore a metà carriera

Gli uomini hanno la crisi di mezza età. Che poi, mezza età… quello stato vago che può andare dai 35 e spingersi fino ai 48. Oggi non esistono le mezze età, con questo sempiterno rimandare a domani i traguardi, le conclusioni, a volte gli stessi progetti. Ma mezza età o meno, esiste di certo la metà carriera.
Ecco, io ho la crisi di metà carriera.

Sì, perché ho realizzato che sono a metà del mio percorso lavorativo.
A qualcuno prenderebbe un colpo a pensare di aver davanti ancora vent’anni, forse qualcuno in più.
A me sta prendendo un colpo per il contrario, perché il mio mestiere è un po’ particolare…
Insegno, ok.
Insegno italiano ( e anche storia ).

E quando sei a scuola ti sembra che tu possa esserci in eterno perché sei abituato a vedere i corridoi affollati di persone più o meno piccole che sono destinate a stare con te per un segmento di tempo molto limitato ( a volte 5 anni, a volte 3, dipende dal ciclo di studi in cui insegni ) e quindi se sei piuttosto bravo ad arginare l’eventuale nostalgia di chi va via e a sostituire i volti, le voci, le caratteristiche con quelle di chi arriva, i nuovi ( mentre i tuoi ex alunni fanno la stessa cosa con te… ), non sei altrettanto consapevole del tempo in cui tu sarai lì dentro.

Ti sembra di essere fermo ed eterno, no? Di star dietro la cattedra a sentire almeno 4 volte al giorno il suono della campanella per sempre, a vederli andar via e a veder arrivare altri piccoli individui. Piccoli, giovani, piccolissimi, giovanissimi, non cambia molto.

Ma la verità non è questa. Non siamo fermi ed eterni, non insegneremo per sempre, e, sebbene continuiamo a formarci, ognuno di noi ha davanti a sé un tempo professionale limitato.
Io, ad esempio, ho recentemente realizzato che spiegherò l’ “Infinito” di Leopardi altre dodici volte. Dodici volte e poi mai più, perche non insegno italiano in tutte le classi tutti gli anni.

La stessa cosa mi capiterà con la Shoah, con Paolo e Francesca, col congiuntivo e col condizionale, con il Muro di Berlino, con le subordinate concessive, con il 5 maggio, con il Decadentismo, con lo zeugma, col complemento di specificazione, con la Riforma protestante, con Montale e persino con le analisi dei testi delle canzoni!

Cioè, dodici classi a cui cercare di trasferire quel che so su argomenti, concetti, sentimenti, imprese, lotte, cambiamenti, progressi, involuzioni, vita. Vita vita vita.
Dodici classi, un pugno di ragazzi.

Ho deglutito cercando di rimandare il pensiero. Ma il pensiero si è fatto imponente fino a giganteggiare e ho preso consapevolezza: anche il mio tempo scuola è un tempo finito, un segmento e lo stare in classe, lo starci comodi, lo starci svogliati, lo starci entusiasti, lo starci stanchi, lo starci pieni di energie, lo starci tristi, insomma, anche quello prevede un inizio e una fine. Insomma, anche io, come loro, sto passando.

Mi è preso un colpo, diciamolo. Non tanto per la finitezza dell’essere umano, che per quella, va beh, c’è poco da fare, ma perché anche insegnare è, come tutti gli altri, un mestiere a tempo. E sebbene il quotidiano ti distragga, tra compiti in classe, scadenze surreali, riunioni di dipartimento, colloqui, collegi e consigli, il tuo tempo in classe è veramente un tempo limitato.

Il privilegio di stare in classe. Di dover guidare, per vocazione, per mestiere o per caso, un gruppo di persone giovani a formarsi in un determinato momento della loro vita.

Ho sempre insegnato con entusiasmo superiore alla media ma da quando ho capito che sono già a metà, ho capito che devo metterci un’intensità maggiore. Anche se a fine mattinata sono spompato, anche se cerco di vivere ogni minuto della lezione cercando di limitare gli spazi morti ( forse aver fatto tanto teatro, in passato, ha fatto germogliare in me la malattia dell’intrattenimento per tutta la durata dello show? ), di capire se il grado di attenzione è globalmente alto e diffusamente piacevole, evidentemente non mi basta. Non mi basta più.

Capire che l’Infinito è finito è stato un trauma.

Ora però bisogna affilare le armi per superarlo e capire che un appello a inizio giornata, una penna rossa su un foglio protocollo, un sorriso di stima, un colloquio commovente, un’esercitazione propedeutica al compito… non è per sempre.

Elvio Calderoni