Accade raramente. Ma a volte accade. L’ultima volta fu con Roberto Benigni ( a proposito, fa ancora il regista di cinema? Non sembra… ), quasi vent’anni fa. E adesso, in un contesto del tutto diverso, con una rosa di nominati più ampia, un nuovo film italiano raggiunge la candidatura all’Oscar come miglior film.
CHIAMAMI COL TUO NOME di Luca Guadagnino, una coproduzione dagli “intenti” internazionali, è giunto, preceduto da una grancassa di recensioni entusiaste e di premi in giro per il mondo, nella patria del suo regista e, sebbene non abbia cominciato il suo cammino commerciale italiano con i botti, è uno di quei classici “sleeper” che durano un’intera stagione. Probabilmente, nessuna delle 4 nomination all’Oscar giungerà a meta ma conviene fare qualche riflessione su un film così diverso dagli altri, con un destino differente, firmato da un regista di cui gli States si stanno accorgendo prima di noi.
Luca Guadagnino non ha mai avuto fortuna al box office italiano e molti critici hanno storto il naso verso il suo cinema così attento alla forma. Estetico, si disse. E meno male! In un panorama desolante, in cui la grammatica del cinema è stata portata avanti a livello basico, uno che è innamorato di Bernardo Bertolucci e Luchino Visconti fa subito la differenza. Tutto il cinema di Guadagnino pre- call me by your name, è un cinema che osa, che scruta, che perfora e che attraversa. La sua forza visiva è spesso anche narrativa e indaga tra le pieghe dell’animo umano con una sensibilità e un’assenza di banalità non comuni.
IO SONO L’AMORE forse è il titolo più ispirato ( e vale la pena recuperarlo, subito! ), ambientato in una Villa Necchi milanese a cui restituisce tutto il fascino in un impatto che, prima che internazionale, è cinefilo. Cinema inquadratura per inquadratura, volto per volto, immagine per immagine. Estetico? Calligrafico?
No. Il cinema di Guadagnino è voglia di differenziarsi da sguardi quotidiani, da grammatiche basilari, da illustrazioni audiovisive televisive. Gli andò meno bene con A BIGGER SPLASH, fischiato a Venezia, ma evidentemente il 2018 è il suo anno, e finalmente!
CHIAMAMI COL TUO NOME ha una prima ora baciata dalla grazia. Non a caso è scritto da quel James Ivory che fece sognare mezzo mondo inquadrando la campagna toscana in CAMERA CON VISTA o il verde inglese in MAURICE e CASA HOWARD.
Un ottuagenario, Ivory, che possiede una penna più giovane di quella di un adolescente, eppure solido, asciutto, chirurgico. Il non detto del film è un gridato che urla, appunto. Urla perché ci fa sentire i cuori che battono, a volte all’unisono, a volte da soli e ci lascia aderire ai protagonisti dimenticandosi che si ha a che fare con un oggetto filmico. Oggetto filmico che possiede tanti elementi interessanti: l’uso della musica, ad esempio, che funge da contrappunto sfidante ai falsi movimenti dei personaggi, sfidante perché osante, perché innovativo in una cornice estetica che sembra raggelata e invece respira di un’estate lacustre afosissima e indimenticabile.
Nella parte centrale, la storia d’amore inciampa in qualche convenzionalità, ma è poca roba, perché ci si prepara a un finale e a un sottofinale da brividi: il monologo del padre ( che andrebbe portato in tutte le scuole del mondo, e non solo di cinema o drammaturgia, ma di vita! ) e il piano sequenza del giovane protagonista davanti al caminetto, in lacrime, indeciso se passare all’età adulta gettandosi alle spalle il movimento che lo ha sconquassato o continuare a scaldarsi il cuore in virtù di un ricordo che fatica a diventare speranza.
Personaggi che parlano anche quando stanno zitti.
Che si chiamano, certo, ma col nostro nome.
Elvio Calderoni