RORARA e il capitolo che corre…

Pubblichiamo un’anteprima del capitolo 11 del libro RORARA, una parte che sa di fatica e opportunità, le stesse che offre la storia ad un mondo malato.

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È quando hai finito di faticare che ti senti come nuovo, come mai prima. È alla fine dell’ultima salita, dell’ultimo chilometro che ti senti finalmente appagato. È solo in quel momento che ogni muscolo tremolante ti ricorda che sei vivo. La nostra capacità di analisi, quella che ci permette di capire ciò che siamo diventati, è compromessa, e confonde continuamente ciò che è urgente con ciò che è importante.

Oggi la gente comune non è più in grado di accorgersene e tutti sembriamo preda di un incantesimo: immobili facciamo mille cose, nella staticità mortale di un ghiacciaio perenne.

Guadagnare tempo su altro tempo non è più possibile e bisogna poter avere l’opportunità di correre facendo la strada più scomoda, quella più lunga, semplicemente per il piacere di muoverci. Camminare con lo sguardo non è più possibile, bisogna mettere i piedi a terra perché la nostra visione, ormai, è completamente distorta o almeno compromessa.

Max ha preparato la cena e sta riflettendo ancora sul ragazzo che ha incontrato nel bosco. Un’aria decisamente familiare, la sensazione di conoscerlo da sempre. È quando sono sul punto di finire l’allenamento che inizio a sentire quella sensazione di onnipotenza. Dura poco, ma alla ripetuta finale, sull’ultima salita, sento di essere invincibile. Correre significa mettere alla prova se stessi, i propri limiti, la capacità di spingere oltre le proprie possibilità, quelle dei propri muscoli.

Desiderare intensamente di raggiungere un traguardo e poi, appena lo si è raggiunto, fissarne uno nuovo, uno più lontano, uno quasi impossibile. Mettere alla prova la propria mente, flirtare con l’esaltazione per poi abbandonarla subito dopo, e abbracciare la fatica, anche quando sembra l’ultima cosa sensata da fare.

Percepire la possibilità di fallire e poi credere di nuovo in sé stessi. Temere di non farcela, di non poterne più, di non riuscire a controllare i piedi, le fibre muscolari, le ossa, le articolazioni, i nostri movimenti e i nostri pensieri e poi, superarsi ancora.

In un movimento che non finisce mai, che rigenera sé stesso, e noi stessi, e il mondo attorno a noi. Sta trascrivendo le sensazioni della seduta di allenamento sul suo diario. Lo fa da quando ha abbandonato ogni forma di archiviazione digitale.

Unico mezzo di protezione contro le geolocalizzazioni del sistema centrale di controllo. Si era preparato bene prima di arrivare al suo eremo naturale, portando con sé decine di agende su cui lasciare la testimonianza che vivere ad impatto zero era ancora possibile. I suoi diari non riportano soltanto le sensazioni della corsa; al loro interno Max ha trascritto anni di coltivazione, le ultime sementi a disposizione che aveva che e continua a far ruotare con la tecnica a maggese.

«È mentre seguo il filo tangibile della fatica, mentre lavoro questa terra ancora viva per volontà mia, che percepisco tutto il peso del coraggio che mi ha fatto partire. Ogni volta, tra lo start e il mio valore, ci sono mille paure. Ma tu sai di aver fatto il lavoro più importante, di aver assecondato l’impegno che fortifica. Le albe che conquisto in cima al crinale. Le mattine a ridosso di un pendio da scalare.

Ancora una salita, ancora un giro, ancora una linea segnata a terra. Mi sento così sicuro tra quegli alberi che proteggono il mio mondo, sono di fatto invisibile. Come quando correvo accanto ai puledri che galoppavano nelle lunghe innumerevoli del Progetto. Ascoltavo la loro fatica a un centimetro dal mio cuore, e non sentivo la mia. Quello era il momento che disegnava la vita e che volevo vivere con il mio gesto. Ho giocato la mia parte in questa vita sconvolta dagli eventi, in questo mondo impazzito, ho messo in campo la mia forza per sopportare il peso di lottare contro la stupidità, contro ogni aberrazione della ragione».