Racconti di un cammino nelle Terre Mutate

Il Cammino nelle Terre Mutate è un trekking laico, ideato e progettato da chi voleva che queste aree, così profondamente colpite dalla distruttività dei sismi, non dovessero subire anche l’ulteriore onta dell’oblio.

È un percorso che tutti possono fare, a patto che si parta allenati, informati e preparati – come per ogni trekking -, ma soprattutto dotati di un po’ di sensibilità ed educazione, perchè si incontreranno persone ancora immerse nel dolore della perdita di un pezzo della loro vita -materiale e personale-, spesso offese perché si sentono dimenticate, e arrabbiate nel vedere ritardi e lungaggini burocratiche da parte di quelli che la casa non l’hanno persa.

Il nostro gruppo è piccolo ma variegato per storie ed età: alcuni fanno parte del CAI, altri sono camminatori accaniti ma non affiliati a gruppi o associazioni, altri ancora -io- sono alla prima esperienza di trekking.

Faremo solo la metà del Cammino perché la prima parte è stata già fatta da larga parte del gruppo lo scorso anno. Sì, lo so che i veri camminatori non ammettono che si possa iniziare un percorso e non portarlo a termine, ma le poche ferie rimaste a settembre e gli impegni ti portano spesso a soluzioni e aggiustamenti. E poi io devo ancora imparare!

Conosco bene solo due dei miei compagni di viaggio, gli altri solo di vista o di nome, ma la cosa bella del trekking è che ti dà il tempo di conoscerti -ore e ore per vallate e boschi, su carrarecce e ghiaioni- il modo di familiarizzare, perché ti mette di fronte a situazioni di condivisione: stanze comuni nei rifugi o nelle pro-loco, creme e balsami per dolori vari, cerotti per vesciche, fasciature per ginocchia o caviglie deboli; e ti dà la voglia di restare uniti, perché nessuno viene lasciato indietro, il passo del gruppo è quello di chi è più lento o in difficoltà.

Partiamo dall’ospitalità della casa della mia famiglia a Campi di Norcia in direzione Castelluccio la mattina del 4 settembre.

Attraversiamo la vallata del Castelluccio ancora avvolta nella nebbia della mattina. Rimane qualche sprazzo di colore di quella che nelle stagioni appena passate è una fioritura dirompente, qua e là il viola dei fiori delle lenticchie e il blu dei fiordalisi.

Guardando su si vede subito la grande e profonda rottura sulla montagna, il primo segno scolpito nella roccia del dolore fisico che il terremoto ha provocato alla terra da cui provengo.

I campi, i tratturi, gli alberi e le fonti, alcune delle quali ormai inutilizzabili perché l’acqua dopo il terremoto non esce più: il parco Nazionale è tutto questo e molto altro. L’odore della natura, l’aria fresca e le pecore che ti camminano accanto scampanellando ti fanno pensare che sei tornato indietro a quando queste strade erano le uniche percorribili.

Ti scopri un uomo moderno che attraversa sentieri di un’altra epoca.

Il primo giorno ci fermiamo prima della fine della tappa perché trovare alloggio dopo il terremoto, a fine stagione e con tanto di Covid, non è stato molto semplice.

Stefano, che gestisce il rifugio Mezzilitri, nel pomeriggio si siede con noi e ci racconta degli amici che ha perso per il terremoto, della sua casa che non c’è più, delle persone del paese che hanno vissuto per almeno un anno in alberghi sulla costa adriatica.

Ci dice che oggi può raccontare, perché ha scoperto sulla sua pelle, di quanto gli italiani siano un grande popolo, di come e quanto i terremotati siano stati sostenuti e aiutati dalla gente.

Spesso gli si spezza la voce, e i suoi occhi blu ti guardano lucidi per farti intuire che quello che sta condividendo in fondo tu non potrai mai capirlo del tutto.

La mattina di domenica si riparte per Arquata del Tronto. Attraversiamo frazioni ormai deserte, incontriamo persone che ogni tanto tornano ai ruderi delle loro case per controllare lo stato delle cose, per non dimenticare la loro vita passata, per piangere nel silenzio.

Ci fanno vedere quella che era la scala che portava all’ingresso di casa, poco lontano quella del vicino che non c’è più, il fienile o il pollaio crollati. Attraversano il paese insieme a noi mostrandoci passo passo i segni della distruzione e il ricordo di quello che era.

Ho visto una parete di quello che deve esser stato un palazzo pubblico con le tende ancora appese, ma degli altri tre lati non resta nulla, ho visto letti in ferro battuto con ancora le lenzuola e le coperte in bilico sul niente, lampadari appesi, tende che ancora si muovono alle finestre rotte, e bagni e cucine semiarredate, aperte come se fossero le case delle bambole dove da bambina muovevo i personaggi e spostavo i mobili…. ma qui è tutto vero, c’erano persone non bambole.

Nessuno di noi ce la fa a parlare. Passiamo per la frazione di Tufo, dove la sensazione è quella di guardare gli scavi di Ercolano, perché sono rimasti solo pavimenti e qualche muro esterno.

Arriviamo così fino ad Accumuli. Dormiamo in una località vicina, Illica, nel b&b Lagosecco con casette mobili gestito da Davide, che sembra un po’ burbero e diffidente, ma capisci subito che è una persona coraggiosa e dal cuore grande perché viene a prenderci in macchina proprio ad Accumuli e fa su e giù due volte per portarci tutti.

Dopo la cena ci fa vedere il suo orto e ci dice che al suo posto una volta lì c’era la sua sala da pranzo, racconta di quanto è stato fatto e quanto ancora c’è da fare per la gente del posto, di come anche solo un semplice percorso di trekking può aiutare un piccolo paese a ricominciare e, insieme a sua nipote Sara, ci invitano a trattenerci qualche altro giorno e ci danno delle dritte sui percorsi e sulle segnalazioni del cammino, che in questa zona non sono proprio così frequenti.

Il giorno successivo, da Accumuli a San Tommaso, poi Cornillo e altre frazioni, arriveremo fino ad Amatrice.

Ci fermiamo per un pranzo della condivisione: tiriamo fuori tutto quel che abbiamo nei nostri zaini perché non essendoci più negozi o alimentari nei borghi che attraversiamo, non siamo riusciti a procurarci altro se non more, mele, oltre alle barrette energetiche, alla frutta secca e a qualche merendina.

Lungo il percorso attraversiamo i villaggi di casette in legno, ci fermiamo a fare i complimenti ad una signora per come è curato il suo giardinetto con piante e fiori e ci dice che, alla sua età, cerca di abbellire il posto dove vive perché non crede avrà mai modo di andar via di lì, ma spera profondamente che i suoi figli e i nipoti possano un giorno rientrare nella loro casa.

Amatrice è uno dei luoghi che forse vede più evidente la ricostruzione.

Monica ci racconta che molte persone non sono tornate, e tra queste c’è sua figlia, che ha paura di vivere lì nonostante i genitori abbiano nuovamente fatto i lavori al b&b La Rinascita che gestiscono.

Leggi nei suoi occhi la forza di chi nn si vuole arrendere e prova a reagire, ma che per la paura continua a dormire nella casetta di legno, e che teme non ci sia futuro qui.

Da Amatrice a Campotosto, il giorno numero 4, la tappa è stata dura e faticosa, ma per me ha significato una soddisfazione senza eguali perché ce l’ho fatta…. salita salita salita e -se non ci rimani- quando arrivi in cima vedi una distesa d’erba piena di grilli saltellanti, le vette dei Monti della Laga e, giù in fondo, il lago di Campotosto che si dirama in due bracci opposti.

Uno dei migliori, più guadagnati e più meritati panini della mia vita.

Campotosto è un paese in cui qualcosa si muove: nonostante al centro molte case siano chiuse e con le porte sbarrate perché gli edifici sono pericolanti, incontriamo uomini che si aiutano e sistemano cancelli e recinzioni.

Ci sono il bar, l’alimentari, la farmacia e l’ufficio postale; qui parecchi sono rimasti, anche se la parte centrale del borgo è silenzio e macerie.

Giuseppina, sua sorella e tutto lo staff del ristorante-albergo Serena, dove alloggiamo, ci hanno con grande cuore recuperati in piazza e accompagnati come se fossimo i loro figli da prendere e portare a scuola, aiutandoci a non allungare il percorso oltre i chilometri stabiliti dal cammino.

Il mercoledì arriviamo a Mascioni dove Domenico, guida oltre che gestore della Locanda Mausonium, ci racconta l’evoluzione e la definizione delle tappe di questo trekking e di come a lui e molti altri dei paesi limitrofi, siano stati chiesti consigli e suggerimenti per delineare quello che sarebbe diventato l’itinerario che stiamo percorrendo.

Da Mascioni a Collebrincioni la tappa è davvero impegnativa, un po’ per l’asfalto e un po’ per i suoi 25 chilometri.

Giunti all’arrivo il circolo di Collebrincioni è un misto tra una visione e un’oasi.

Gli abitanti del paese lo considerano davvero il loro bene comune, perché è ciò che ha rappresentato nel periodo in cui erano sfollati. Questo posto è nato come refettorio e chiesa quando tutti loro vivevano nelle tende nel terreno di fronte.

Così, quando gli abitanti sono rientrati nelle loro case, hanno pensato di utilizzare questo edificio per l’ospitalità, adattandolo e arricchendolo nel tempo.

Poco dopo il nostro arrivo Nunzio è passato per chiederci se andava tutto bene e ci ha invitati a bere tutti insieme al bar del paese una volta che ci fossimo sistemati. Qualche minuto dopo essere seduti al bar qualcuno si riprometteva di portarci i pomodori del suo orto per la cena, altri organizzavano il trasporto dei nostri zaini alla stazione dell’Aquila per il giorno successivo, altri ancora ci invitavano per la festa della domenica seguente.

Siamo partiti la mattina dopo con il cuore colmo e la ferma intenzione di tornare a bere una birra con queste persone che ci avevano accolto come se fossimo sempre vissuti qui.

In questo cammino abbiamo attraversato meraviglie e disatri, angoli del nostro Paese che ti fanno ancora credere che l’uomo non abbia distrutto tutto, paesi martoriati come se Gulliver fosse passato correndo.

Ma soprattutto abbiamo conosciuto persone belle.

Non so se è una caratteristica generale degli abitanti dei piccoli centri della nostra Italia, o se è in particolare un atteggiamento verso chi vedi attraversare il tuo paese con lo zaino in spalla, ma noi abbiamo conosciuto molte persone che, nonostante il dolore, la paura e i disagi che stanno tutt’oggi provando, ti sorridono, si fermano a parlare e ti tendono la mano anche solo se hai bisogno di un po’ d’acqua.

Per chi volesse intraprendere questo cammino, i posti e le cose che vedrete vi faranno male, ma vi daranno la misura di quel che accade ed è accaduto davvero, senza i filtri sensazionalistici di stampa e tv, la lentezza dell’andare a piedi, dell’attraversare i luoghi anche lontani dall’asfalto.

Ma fatelo con la mente, gli occhi e il cuore ben aperti, vi darà tanto.

Il gruppo è ciò che fa la differenza. Il mio è stato ogni giorno una fonte di insegnamento, di ispirazione, di scherzi e battute, di risate senza fine, di comprensione e di sostegno. Spero che chiunque parta per questa esperienza o una simile abbia la fortuna di averne uno così bello e inclusivo come quello che ho trovato io.

Quando siamo scesi dal treno che ci ha riportati a casa eravamo soddisfatti -certo!-, stanchi -parecchio-, ma la stessa sera, ognuno a cena nella sua casa, abbiamo sentito la mancanza degli altri, della condivisione dei giorni trascorsi insieme e del regalo che ci eravamo fatti con la nostra compagnia.

Personalmente questa esperienza mi ha visto tornare un po’ acciaccata ma soprattutto più consapevole della realtà che mi circonda, ravvivata e carica, più cosciente delle mie capacità, felice e grata per le persone che ho conosciuto e incontrato grazie ad essa.

Si dice che più importante della meta sia il cammino….magari è per questo che li chiamano così.

Silvia Barcaroli