A gennaio il cinema italiano ( e non solo ) ha fatto i conti con cifre sconfortanti per il botteghino, rese drammatiche dal confronto con l’anno precedente che a sua volta era stato proclamato annus terribilis per l’assenza di Checco Zalone.
Il dato interessante è sempre lo stesso: l’attenzione del pubblico nei confronti del cinema tricolore si concentra su un pugno di film all’anno, con qualche variante aggiunta dalle ultime stagioni. Ad esempio, è tramontato il regno del cine-panettone. Il che non è poi una cattiva notizia.
Eppure, il 2018 ha aperto i battenti con qualche segnale positivo: una serie di film che hanno portato gente al botteghino, animato dibattiti, riportando il cinema tra gli argomenti di conversazione possibili. Ha aperto l’anno NAPOLI VELATA, l’appassionato ed ipnotico film di Ferzan Ozpetek che ha riportato il regista italo-turco ad atmosfere e risultati che apparivano perduti nelle ultime opere.
Ha proseguito, con risultati ancora più forti al box office, COME UN GATTO IN TANGENZIALE ( che ripropone il duo Cortellesi – Albanese ) e l’ultima opera di Carlo Verdone, quel BENEDETTA FOLLIA in cui il registaattore romano incontra Ilenia Pastorelli, reduce dal successo di LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT.
Ebbene, anche Verdone, come Ozpetek, sembra esser tornato alla sua forma migliore: il film diverte e incanta in più parti, sorretto da uno script finalmente all’altezza della fama del suo regista. Il mese “strano” ( o straordinario ) del cinema italiano è proseguito con un paio di nomi “musicali”: Fabio Rovazzi, esordiente doc, e Luciano Ligabue, che è tornato in sala dopo 16 anni. Il primo ha recitato, da mattatore assoluto, in IL VEGETALE, firmato da Gennaro Nunziante, regista di tutti gli Zalone fin qui usciti.
IL VEGETALE porta con sé un’atmosfera un po’ depressa tipica del mood stralunato che caratterizza sguardo e visione di Rovazzi. La cosa un po’ sorprendente è stata che il film ha portato al cinema soprattutto un pubblico di bambini che hanno apprezzato le gesta candide ed innocenti del loro cantante preferito. Non è uscito fuori un fenomeno da box office, anche se il film, non volgare, certo, ma anche piuttosto piatto e incolore, è stato in testa alle preferenze delle scelte del pubblico per un paio di domeniche.
Diverso il discorso per MADE IN ITALY: Luciano Ligabue, dopo due successi come RADIOFRECCIA e DA ZERO A DIECI, è tornato perché voleva raccontare una storia. Che è poi la storia proposta dal regista in tutte le sue declinazioni, dalle canzoni ai libri. Qualcuno obietterà che sono le solite 4 cose: l’amicizia, la provincia, il suicidio, il destino, la voglia di essere e avere di più.
E’ vero, i temi sono noti ed è anche vero che mentre vedi MADE IN ITALY ti chiedi sempre quale strano oggetto filmico sia e dove vada a parare, sin da quell’incipit danzereccio con Accorsi che si muove sulla coreografia di Luca Tomassini. Ma poi arriva, tutta insieme, come un colpo al cuore, la fierezza e la vergogna di essere italiani. Ed è quello a fare la differenza, nella seconda parte, e a lavorarti ai fianchi finché scoppi e piangi. Sì, perché Ligabue, attraverso la maschera di Stefano Accorsi, e grazie alla sua dolenza, al suo silenzio, alla disperazione che diventa forza e speranza secondo tempi molto emiliani, molto consapevoli e seduttivi appena smettono i panni della negatività , disegna un tessuto narrativo originalissimo.
Fragile, certo, ma anche unico, proprio come il made in Italy per cui continuiamo sfacciatamente a fare il tifo anche in questo febbraio, in sala, agli Oscar, in tv e a Berlino.
Elvio Calderoni