Musica da Palestra

Non entravo in una palestra da anni, da quando, adolescente, frequentavo la palestra di Pino.

Ma quella non era proprio palestra, era più un punto di incontro con gli amici: ci vedevamo li, ciondolavamo, facevamo la doccia e poi andavamo a bere.

E mentre ci intrattenevamo lì eravamo sotto le grinfie di Pino, che a ben pensarci non era particolarmente interessato alla nostra crescita muscolare, quanto piuttosto ad avere un pubblico per i suoi aneddoti: quasi tutti a sfondo sessuale, molti anche piuttosto beceri.

Si era creata una dinamica strana: un po’ noi ridevamo con lui, un po’ ridevamo di lui, un po’ lui rideva di noi e ci prendeva in giro; nei tempi morti facevamo qualche esercizio.

Poi Pino morì, e il gruppo si sciolse.

Nel senso che andavamo comunque insieme a bere, ma la doccia prima di uscire ognuno se la faceva a casa sua.

E così nei trent’anni successivi non ho mai più messo piede in una palestra, nè sinceramente ne ho mai sentito l’esigenza o la mancanza.

Mi sono sempre tenuto più o meno in forma a modo mio, andando a correre e facendo un po’ di esercizi a corpo libero dal profumo un po’ vintage, tipo flessioni e addominali: quelli che Checco Zalone chiama “la ginnastica”.

Poi si è messa in mezzo la mogliera, che in qualche modo mi ha convinto che i miei esercizi erano evidentemente un modo infruttuoso di allenarsi, e che sarebbe stata una buona idea farmi seguire da un personal trainer per imparare gli esercizi giusti e poi magari farmeli da solo.

Ed eccomi qui, con 45 anni sulle spalle e qualche chilo di troppo sul giro vita (nonostante gli esercizi d’antan) che varco spavaldo la porta della palestra, senza sapere bene cosa aspettarmi.

Mi trovo immerso in un mondo maschio, anche se ci sono alcune ragazze, fatto di ferro, muscoli, tintinnare di pesi e musica da palestra.

Che poi non saprei ben definire il concetto di musica da palestra, visto che non ci entrò da trent’anni (da Pino non credo ci fosse la musica) ma su questo credetemi sulla parola, era innegabilmente musica da palestra.

Ero inaspettatamente in anticipo, così il mio Trainer (o si chiama personal?) mi ha chiesto di riscaldarmi regalandogli “40 calorie” su una specie di cyclette con i manubri che si muovevano avanti e indietro;

Io inizio a pedalare di buona lena, e le prime 4 calorie volano facili, intorno alle 20 inizio a sentire la fatica, dopo le 35 è diventato un supplizio, ma tengo duro e arrivo a 40; solo per poi scoprire che, senza occhiali, stavo guardando l’indicatore sbagliato, e che quello delle calorie era ancora drammaticamente a 27.

Alla fine del riscaldamento avevo le gambe di legno, e una grandissima voglia di andare a fare la doccia e poi subito al bar.

Ma non avevamo nemmeno iniziato a fare sul serio.

Non starò qui a descrivervi i tormenti a cui mi hanno sottoposto con quelle macchine di tortura, nel ricordo tutto diventa confuso: basti sapere che oggi mi fanno male tutti i muscoli che conoscevo, più un buon numero di quelli che nemmeno sapevo di avere.

Devo anche confessare che pur di sopravvivere ho dovuto usare dei mezzucci, venendo a patti con la mia dignità e la mia rettitudine morale: ho rubato sul numero di ripetizioni.

Con la coda dell’occhio spiavo il mio aguzzino, e quando lo vedevo distratto approfittavo per saltare qualche numero.

Al sommo dello sfinimento, approfittando di una provvidenziale telefonata ricevuta dall’allenatore, credo di aver fatto una quarta serie di qualcosa contando le quindici ripetizioni tipo uno, due, cinque, nove, quattordici… quindici.

A ripensarci a mente fredda credo che la cosa più imbarazzante sia stata il finale delle mie serie farlocche, quando dopo aver contato le ripetizioni nella mente, grugnivo ad alta voce “QUINDICI!” alla quinta o sesta ripetizione: pietoso

Da un certo punto in poi la fatica mi ha annebbiato la mente, e il cocktail di musica da palestra, odore di ferro bagnato e ipossia mi hanno mandato in una specie di trip allucinogeno, del quale e ho ricordi molto confusi, da cui emergono come dei flash.

Io sulla panca tra una serie e un’altra di qualcosa che guardavo ipnotizzato un bruto che si stava legando in vita una specie di cinta di cuoio collegata a una catena, a sua volta agganciata a dei pesoni di ghisa che gli rimanevano appesi in mezzo alle gambe.

E il nerboruto con tutto questo accrocchio si aggrappava ad una sbarra d’acciaio e iniziava a tirarsi su e giù con la sola forza delle braccia e il mio persecutore che mi diceva: “dai Andrea non ti distrarre, ricominciamo”

Io che seduto su un’altra panca con sguardo stralunato tra una serie e un’altra di qualcos’altro sentivo un tizio che faceva esercizi per le braccia chiedere al mio carnefice:

“non mi sto sentendo più i piedi, è normale?”

E lui, serissimo: “Sarò sincero: NO. Al posto tuo mi farei controllare e poi a me: “Andrea se tu i piedi te li senti, puoi riprendere”

Io con una specie di giogo di cuoio sulle spalle che facevo piegamenti sulle gambe sotto lo sguardo severo del mio sorvegliante, e come da un sogno compare Fabri che mi chiede le chiavi della macchina.

Racconterà poi al resto della famiglia: “Papà aveva sulle spalle una specie di collare da vitello, ed era accovacciato come per fare la cacca. Aveva una faccia strana”

I numeri blu di un orologio digitale appeso al muro, che alle 20.00 avrebbero sancito la fine della mia agonia, ma a causa di un’evidente distorsione del continuum spazio-temporale rimanevano assurdamente inchiodate sulle 19.qualcosa.

Io che ringrazio e saluto, come in trance, prendo appuntamento per giovedì prossimo e mi avvio malfermo verso l’agognato traguardo degli spogliatoi.

Oggi sono qui, nella situazione a me più congeniale di sedia e computer, che ripenso alla mia ora di palestra e provo a fare un bilancio.

E mi rendo conto che quello che ieri era un dolore misto a bruciore equamente diffuso su quasi tutti i muscoli del mio corpo, oggi è diventato qualcosa di diverso.

Un lieve indolenzimento misto ad una gradevole sensazione di benessere, inaspettata e difficile da spiegare: è come se il mio corpo fosse un vestito, ed è come se di colpo me lo ritrovassi addosso lavato, stirato e fresco di biancheria: bello a vedersi e soprattutto piacevolissimo da indossare.

E così mi scopro a pensare che vorrei sentirmi ogni giorno così, e che malgrado la fatica e la sofferenza, ho voglia di sentirla ancora quella strana musica da palestra.

D’altronde questo vestito aspiro ad indossarlo ancora un bel po’ di anni: averne cura mi pare un’ottima idea.

Storie da Caffè