Lezione n. 26: Medio

Medio, medio e un po’ più in la, oltre la mezza misura.

Una parola, un concetto, una distanza diversificata in varie sedute che scandiscono le settimane centrali della preparazione alla maratona.

Sono una vera e propria sorpresa alla prima volta degli allenamenti per la Regina.

Si parte da casa poco convinti di chiudere distanze impensabili, inavvicinabili, avvertendo un misto di euforia, di follia ma anche di paura per l’ignoto che, per noi neofiti, questo tipo di training reca con se.

La conoscenza di noi stessi non si spinge oltre la mezza maratona che si sarà senz’altro sperimentata da poco, e che sarà sembrata di una difficoltà pari ad un’impresa mitologica, tra draghi e mostri a tre teste.

Già dai primi kilometri sul percorso prescelto, ci si chiede quali saranno le nostre reazioni, le sensazioni, le storie che racconteremo a noi stessi.

Sull’onda del mistero si arriva ai 21 km con una familiarità già conosciuta, e poi si procede km dopo km, verso i 23, i 25, i 28.

Come un marinaio che intravede terra laggiù, all’orizzonte, si naviga speranzosi di portare a casa la performance sani e salvi.

La fatica si trasforma in dolore muscolare, tendineo, nella tensione del collo, nel rallentamento inevitabile delle gambe che si fanno pesanti, come macigni,  mentre la mente tenta di non cedere.

Ci chiediamo quando finirà, e quando non ne possiamo proprio più, alla soglia della fine del nostro medio, iniziamo a domandarci se mai lo rivedremo quell’uscio tanto amato.

E’ un pensiero tra tanti, una visione in mezzo a molte, diverse, incoerenti e spesso opposte.

Tutte ci sorprendono a proseguire sul nostro passo come se non ci fosse un chilometraggio predefinito, come se correre fosse un gesto che vorremmo rendere eterno, per non pensare più, per non soffrire più, per riconoscere alla nostra anima la leggerezza di un etereo andare, al di fuori dei nostri confini fisici e mentali.

Si va, e il desiderio di tornare diviene effimero, nella ripetizione automatica di un gesto che abbiamo imparato a riconoscere e ad amare, forse più di ogni altra cosa e che assume il gusto di una perpetua immobilità, nella tenera illusione di una immortalità invano cercata.

Miraggi, chimere di identità sognate e narrate, fiabe infilate nelle scarpe che ci accompagnano fino alla fine dei kilometri assegnati.

Stanchi e felici di aver raggiunto per quel giorno il traguardo previsto, ci culliamo nella soddisfazione dolorante, sotto l’acqua calda della meritata doccia.

Sopraggiunge allora il pensiero del domani, dei prossimi allenamenti, di quei lunghi che sembrano una minaccia: il tempo torna ad essere una preoccupazione, nell’ovvietà della nostra dimensione umana.

Ma non importa, domani si corre ancora, un altro medio, i due lunghi prima della gara, la maratona, il traguardo.

E poi?

E poi ancora, di nuovo, perché nel medio appena corso è questo che abbiamo trovato: la consolazione alla nostra dimensione di semplici esseri di passaggio, che si sentono alati calpestando un mondo troppo spesso oscuro.

Una consolazione mai come oggi, necessaria.

Chiara Agata Scardaci

 

 

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