In un crocicchio di vie appartenenti al quadrilatero del silenzio, a Milano, accadono eventi di sottile media e alta entità. Cristiano ha sposato Victoria ma si è innamorato perdutamente, nello stesso giro di giorni del suo matrimonio, di Georgia Ioanna; Bertrando si è fatto raggiungere da Irene per preparare al meglio la casa a Palazzo Fidia, teatro della festa dei suoi 70 anni. Tomaso, nome da rampollo, destino segnato da rampollo, ha lasciato l’industria di famiglia per coniugare la parola politica verso l’unica altra parola che gli sembra possibile: passione.
Questa puntata è dedicata a lui.
Quanto sono pubblico, quanto sono privato.
Un uomo pubblico e un uomo privato, come se fosse un uomo diviso in due. Una maschera e una persona o, più semplicemente, due aspetti dello stesso individuo.
Tomaso quando aggiorna il blog si sente nel mezzo di un comizio, circondato da bandiere e striscioni. La folla di Internet è meno urlante, non spintona e non fa paura, non ha volti né applausi ma esiste. Ed è stato un passaggio spontaneo trovare l’enfasi nel chiuso del suo ministudio ricavato dall’ex cabina armadio dell’appartamento dei suoi mentre digita le sue parole sul Mac.
Scrivere per persuadere più che per raccontare.
Tomaso come Matteotti è il nome del blog. Gioca su contrasti minimi, veste grafica essenziale, tantissimo bianco e nero, ogni contributo video non è girato a colori, il minimalismo che diventa stile e imperativo, in una buona misura anche cinema.
Non è seduto, è proprio sdraiato, avvoltola il tappeto grigio che occupa tre quarti del pavimento della sua stanza e ama sentire il freddo del pavimento sulle ginocchia nude ( pantaloncini corti blu da casa, felpa rossa ) e sui piedi. Digita a pancia sotto.
Tomaso a un’asta che proponeva vari goauche tra cui alcuni di Jakob Philipp Hackert fu il primo dei videocontributi del blog e ci fu chi parlò di cinema cinema, talmente palese da chiedersi cosa ci facesse nello spazio virtuale di un politicante, di un rampollo politicante.
E anzi la cosa fu un ulteriore appiglio per dargli addosso con la storia della scarsa credibilità, del capriccio sociale, del sogno di potere. Il progetto di Tomaso era invece assai più lucido, più lungimirante. Persuadere fasce di cittadinanza che mai sarebbero state attratte da un blog politico di qualsiasi colore fosse con l’attrazione dell’arte. Arte rivissuta, filtrata, come al cinema.
Il video era muto, ovviamente in bianco e nero, e proponeva Tomaso ad aprile, giubbotto jeans, pantaloni blu, polo azzurra, muoversi negli interni della casa d’aste come un ragazzo fuoriposto.
Sguardi più che parole, immagini, i piccoli quadri di Hackert, un’asta distratta che non era protagonista del filmato, perlomeno non quanto l’attitudine a portarsi via la goauche che Tomaso desiderava tanto: un paesaggio con due pini marittimi all’estrema destra, non centrato, un dipinto di forma rettangolare, legno ad olio a raffigurare, oltre all’albero, una scarpata e un orizzonte, probabilmente campano o laziale.
Ci sono anche delle persone, piccolissime, probabilmente dei pastori, o una contadina, un fauno. Su tutto un caldo giallo protagonista dell’orizzonte, la cosa che aveva colpito subito Tomaso fino alla volontà istantanea di portarselo via appena possibile. Ed era stato anche più facile del previsto. Il video non riporta le fasi salienti dell’asta ma soltanto una conversazione con uno sconosciuto subito dopo che il quadro aveva raggiunto le mani di Tomaso:
“Posso vederlo? Complimenti, mi sembra un’ottima fattura.”
“Grazie. Prego prego, può anche, insomma lo prenda tra le mani.”
“Ah. I colori da vicino sono ancora più belli.” Un sorriso compiaciuto.
Continuava a toccarlo sui bordi. Il sorriso che si trasforma in dubbio:
una pausa e uno sguardo quasi spaventato, con il dito che passa lungo il lato del quadro.
“Ah, ma che disgrazia. Questo quadro è stato tagliato.”
“Prego?”
“Eh, sì, vede… questa è una metà, non vede che qui il bordo non è affatto diritto. Lo sospettavo. Non poteva partire da quel prezzo un Hackert. Vorrà dire che lei possiede un Hac. E che cercherà per il resto della vita il Kert… buona giornata.”
E si allontanò, cappello e bastone, impermeabile e profumo di sandalo, barba rasata come negli anni ’50.
Tomaso si girò verso chi stava riprendendo la scena, preoccupato che avesse conservato più che mai le fattezze dello sconosciuto. In realtà scoprirà subito dopo che il tizio è inquadrato solo di nuca e che il telefono zoomava, più che altro, sulle reazioni infinite del volto di Tomaso, incredulo, sprezzante, poi più possibilista e quasi divertito, beffato.
Non se la sentì di rimproverare Victoria, si era ai tempi dell’amore puro e incrollabile, non registrò il dato nemmeno come una mancanza o una possibilità perduta, anzi. Quell’indugiare sul suo volto gli era sembrata una nuova prova d’amore.
Una sessantina d’anni, una voce senza inflessioni, quasi da doppiatore, impossibile cercarlo nell’epoca in cui cercare equivale a trovare, subito e senza timori. Cercare lui e cercare, soprattutto, l’altra metà del quadro.
Il desiderio di Tomaso era ritornante. Non ossessivo ma un’ossessione periodica. Ad ogni aprile faceva qualche ricerca in più, dedicava qualche tempo all’ossessione. Non quella delle aste, che era pronta a uscir fuori ad ogni stagione, o dell’arte, ma dell’altra metà del quadro.
Perché, anno dopo anno, aveva cominciato a crederci sempre più: forse aveva creduto alle parole dell’uomo con cappello e bastone sin dal primo momento, nel momento esatto in cui le parole furono pronunciate, ma non lo ammise nemmeno a sé stesso. Eppure oggi, che è pieno e completo, gli viene un’idea: le ricerche non hanno portato a nulla, rigattieri, cataloghi, gallerie, piccole medie grandi, informatori, architetti, antiquari, fino ad oggi non gli hanno confermato né smentito molto.
Sì, è vero, potrebbe essere un quadro a metà, il bordo parla abbastanza chiaro, ma a parte che qualcuno glielo ha completamente escluso giacchè esistono prodotti simili di questa grandezza, molti altri hanno anche espresso dubbi sull’autenticità dell’opera stessa, certamente mai esposta o presa da una collezione. L’ossessione che diventa idea, pensa Tomaso, è quel che faccio tutti i giorni.
L’ossessione della politica utile e appassionata diventa discorsi, diventa post, diventa comizi, diventa azioni e decisioni. L’ossessione del quadro a metà può diventare realtà allo stesso modo: facendolo. Realizzando l’altra metà.
Da sé?
Chiamando qualcuno?
Molla la pagina del blog, giocherella con i fili del tappeto su cui si adagia e cerca di trovare un improbabile realizzatore di goauche. Trova delle immagini che si riferiscono a dei quadretti in bianco e nero, realizzati su tele molto più grandi di quella che possiede lui.
Cerca ancora, l’ossessione dell’idea gli monta su, improcrastinabile, e trova il sito di una giovane “promessa” dell’arte: architetto, friulana, una sola foto che la raffigura di spalle, un link che rimanda a un sito temporaneo non aggiornato da tempo di piccole creazioni di scritte su carta da parati o su foto, un paesaggio che Tomaso riconosce come un posto in cui andava da bambino: l’isola di Barbana, di fronte Grado, una donna di spalle – potrebbe essere lei stessa, l’architetto – che sale le scale di un piccolo santuario.
Lei si chiama Irene Piovene e Tomaso ha appena deciso che le commissionerà l’altra metà del quadro.
Elvio Calderoni