-Cristiano, rispondi tu, per favore.
Lo guarda e il sottotesto è “almeno ti rendi utile”.
-Pronto?
-Sono Tomaso Meregalli.
-Sono Cristiano Cavalcabò
-Ciao Cristiano, non ho il tuo numero e allora ho chiamato la mamma di Victoria
-Però ti ho risposto io
Cristiano non sa cosa pensare e cerca di rimandare il momento chiave di questa telefonata. Tomaso è spinto dall’imbarazzo e dall’incertezza, ma ormai ha capito che tirarsi indietro, adesso, non è più possibile.
-Victoria è qui da me.
-Da te?
-Sì, è arrivata ieri. Bloccate le ricerche, insomma. Lei mi ha scongiurato di non farne parola con nessuno ma so che sarei un pazzo a darle ascolto. Ho chiamato per non farvi preoccupare ma penso sia il caso di lasciarla un po’ a riflettere. Fosse anche mezza giornata.
-Come sta?
-Abbastanza bene. Sta dormendo. E’ stanca. Non è sola.
-In che senso?
-Ha un neonato con sé.
-Un neonato?
-Insomma, ti prego di avvertire anche i suoi genitori, di gettare acqua sul fuoco. Sta bene. Lasciatele solo un po’ di respiro.
-Va bene, li avverto io.
-Riservatamente, per quanto possibile.
-Riservatamente.
-Grazie.
-Grazie a te.
Tomaso si è tolto un peso e spera che ciò non provochi una crisi irreversibile in Victoria, si augura che gli eventi da adesso in poi saranno più soft. Meno ansiosi. Isacco si sveglia, corre da lui e inizia a cullarlo, Victoria continua a dormire.
Cristiano si sorprende della mancanza della gelosia e del senso di non appartenenza che continua a mantenere verso la sua novella sposa e non se ne fa una ragione. Ha l’istinto e la necessità di capire chi è, di continuare a stimarsi, di non trattare più le sue scelte come se fossero le scelte di un altro. Di ritrovare la forza e la sicurezza che l’hanno sempre contrassegnato, come se avesse avuto addosso, dalla nascita, un certificato di sana e robusta costituzione mentale, un’inattaccabilità permanente che l’ha tenuto al riparo da fuochi pericolosi, dirupi dell’anima e attacchi spontanei del cuore. Si sente nudo e intanto comunica la notizia ai genitori di sua moglie che smettono le loro azioni come fossero al rallentatore. Sembravano programmati per una ricerca infinita, fatta di dirette e di aggiornamenti, di momenti di scoraggiamento documentati e di altrettante speranze, invece si blocca tutto, all’improvviso.
Sveva si sveglia e incrocia subito gli occhi attenti di Irene che le ha dormito accanto.
-Ma da quanto stiamo dormendo?
-Tu ti sei fatta un bel sonnellino. Io non così tanto.
-E adesso che facciamo?
-Colazione? Hai fame?
-Sì. Voglio andare da Roberto.
Un disco rotto, un incubo che si riaccende subito. Irene non poteva sperare che la notte portasse novità nell’animo di Sveva, ma almeno qualche intento parallelo, qualche considerazione meno schematica, qualche pensiero che salisse dalla periferia verso il centro, un istinto improvviso verso Isacco.
-Sveva, vieni, aiutami a preparare la colazione. Facciamo piano che Bertrando dorme.
-Sì ma solo un caffè al volo, io devo tornare da Roberto.
-Sveva, non devi cercare nessun Roberto adesso. Tu devi capire che fine ha fatto tuo figlio. Ora basta. Io ti voglio aiutare e lo sto facendo ma adesso devi ascoltarmi. Devi andare a riprenderti tuo figlio. A quest’ora potrebbe essere in pericolo. O sta soffrendo e comunque non è con te. Non puoi pensare unicamente a Roberto che a te non pensa.
-Non mi pensa e lo sai perché. Perché gli ho teso questa trappola. Ma perché pensi unicamente che lui sia lo stronzo? Non è così, te l’ho già detto, non è così. Tu mi stai aiutando e va bene ma non puoi sapere la mia storia meglio di me.
-Tu devi cercare tuo figlio e basta, non ci sono altre considerazioni da fare
Il volume della voce si alza, le vertebre scricchiolano sotto la pressione del sangue che sembra circolare ad una velocità incessante e sempre più alta, le mani di Irene tremano, non vuole più avere a che fare col male, con gli errori, con le scelte sbagliate, sente un’ìmprovvisa voglia di un porto sicuro, tornerebbe a Cividale in un istante, a casa dei suoi, se non tra le braccia dell’uomo che doveva sposare anni fa o in quelle di quest’uomo che adesso sta percependo come un uomo a matita, un bozzetto accennato, su uno sfondo di incomprensioni ed insicurezze.
Lo vorrebbe Tomaso adesso tra le braccia?
Sarebbe il porto sicuro che sente di volere più di tutto il resto?
Ha davanti lo sguardo ghiacciato e sanguinante di Sveva, da cui non riesce a farsi capire, le sue ossa che sembrano di granito in questo volto che deve esser stato molto bello ma che pare aver perduto ogni fascino, ogni luce.
-Mio figlio è a Sanremo. L’ho lasciato davanti all’ospedale. A quest’ora sarà morto.
Irene accende il computer e comincia a cliccare sul web, chiama gli ospedali, il cuore sempre più in gola, Sveva la lascia fare mentre sorseggia il suo caffè e non capisce più nulla di ciò che la circonda. Irene chiede, la voce rotta, si espone, domanda, indaga, lascia contatti, ne chiede a sua volta, le vibra il telefono.
-Possiamo parlare più civilmente? Mi manchi.
L’uomo a matita, il bozzetto, Tomaso.
-Tomaso, di cosa vogliamo parlare?
-Di noi. Di noi che abbiamo iniziato e qualcosa ci ha messo in stand by. Voglio riavvolgere il nastro, non voglio pause con te, non adesso. Io ho fame di te, sarebbe assurdo fermarsi adesso, che cosa stiamo facendo?
Irene non sa rispondere. Si chiede se la domanda giusta sia, più che altro, “che cosa abbiamo fatto prima di adesso”.
E che cosa siamo stati?
Di chi eravamo?
Come siamo arrivati fin qui?
Perché le fitte di gelosia sembrano più forti della fame che avevo di te?
Perché mi sembra tutto scritto a matita? Cancellabile?
Perché abbiamo corso così tanto? Per riempire reciprocamente un vuoto?
E perché stai coprendo Victoria?
-Ho sentito il marito di Victoria, Li ho avvertiti. Fine della copertura. Oh no, si è risvegliato Isacco.
-Isacco?
-Il bimbo che è con lei, te l’ho detto, no?
-Isacco?
Sveva guarda Irene pronunciare il nome di suo figlio. Due strisce gemelle le rigano il viso dagli angoli degli occhi alle gote e giù giù giù a bagnare il collo.
Elvio Calderoni