La Storia Ricorrente 29a puntata

Questa settimana ci inoltriamo, con Tomaso ed Irene, tra le pieghe di quegli oggetti e di quegli spazi, quei luoghi che ci richiamano e che quando incontriamo ci fanno vivere un incanto infinito e potente. Che somigliano al senso della vita.

La casa del signor Paolo è più piena di quadri di quanto Tomaso e Irene potessero immaginare. Ogni parete si segnala per l’abbondanza e la varietà di presenze artistiche. Non solo pitture, ma anche piccoli bassorilievi, maschere occidentali, persino un busto. Il tutto, però, ha una coerenza con il mobilio e i colori dei muri, tutto tende ad un bianco, colorato da timide variazioni.

-Accomodatevi. Ognuno ha diritto al suo buen retiro. Questo è il mio.

Si muove aiutandosi col bastone che Tomaso aveva già notato il giorno dell’asta. Lo guarda e gli sembra invecchiato parecchio, ma sempre portatore di un bagliore negli occhi potentissimo, a sfidare ogni età.

Irene nota che il bianco prevalente non è amplificato dalla luce, le serrande abbassate a metà, poche finestre, ambienti poco ariosi, troppi mobili.

-Come state vedendo, ho dedicato la mia vita all’arte. O forse l’arte l’ha salvata a me. Cambia il punto di vista ma non la sostanza. Mi piace il vostro silenzio, siete persone pratiche, si vede. Passiamo al sodo?

-Certo. Ma non vorrei sembrarle poco cortese.

-Oh, si figuri. La cortesia è merce rara e sorpassata. Non mi sembra né cortese né poco cortese. Non ci saremmo mai conosciuti senza quell’Hackert. Non ci sarebbe alcuna conversazione.

-Beh, di certo lei quel giorno mi ha un po’ sconvolto quando affermò con certezza che stessi acquistando non un quadro ma soltanto la sua metà.

-Lo immagino. Un trauma. Anzi, un mezzo trauma.

Paolo ride, Tomaso sorride, Irene li scruta.

-Beh, sì. E chiaramente ho una curiosità folle di vedere l’altra metà. Di capire se è proprio così.

-L’ansia del vedere, la voglia di possedere. Come la capisco. Si fidi, è proprio così. Ho una memoria molto fotografica e sebbene sul web non ci sia nessuna testimonianza, nessuna congettura e nessuna immagine, ho parecchi testi che confermano la mia ipotesi. E in uno ho persino trovato il quadro intero.

-Che cosa?

-Eh, sì. Vede quel volume accanto a lei?

Tomaso si gira e inquadra un libro foderato di rosso, un rosso cardinalizio pesante.

-Lo posso prendere?

-Certo, è lì apposta. Lo guardo e lo studio da settimane. Apra, apra. Vada a pagina 458. Lì c’è il nostro amato quadro.

Col cuore in accelerazione, Tomaso vola alla pagina in questione, scivola sulla carta lucida con i polpastrelli, fa fatica a raggiungerla, gli sembra di tremare, supera la pagina senza accorgersene, poi torna indietro, apre e trova il quadro al centro. Le due metà unite. Una magia che sembra un regalo del tempo. Come se la nostra vita iniziasse ben prima di quando cominci realmente, come se ci fossero dei segnali, nel mondo, di incoraggiamento verso la felicità, delle nostre emanazioni nascoste in un angolo imprevisto, un angolo cieco, muto, eppure urlante, luminosissimo.

Tomaso tocca la carta della pagina come se fosse la superficie del quadro, i polpastrelli che vibrano, il sangue che percorre ogni sua fibra pulsando, uno sguardo ad Irene che coglie alla perfezione l’alterazione emotiva che Tomaso sta provando, e gli cerca l’altra mano, intrecciandola alla sua, spontaneamente, senza subirla, senza accettarla, ma provocando l’incontro delle dita. Tomaso è ancora più felice e più invaso di prima, non saprebbe quantificare il silenzio che è sceso giù, la qualità di un momento che non è ancora attesa, che non è smania di possesso, ma soltanto una brillante agnizione, di un’opera e, in una certa misura, di sé stesso. Il quadro di Hackert, gli alberi, la vegetazione, le rade figure umane e animali che lo abitano gli sembrano urlare: esistiamo da prima.

Esistiamo da prima.

Anche tu esisti da prima.

Esistiamo tutti da prima.

Paolo osserva la concentrazione vibrante di Tomaso apprezzandone lo spessore, intuendo la passione se non la competenza.

-Tiri fuori la sua metà. Così avrà la certezza.

Paolo ha rotto l’incanto di quel momento con un imperativo pratico. Irene lo ha guardato, per la prima volta, con un’aria di distacco. Tomaso ha lo zaino tra le gambe, lo apre, ne estrae una custodia di carta, spago e plastica, quasi fosse un pacco da spedire. Con cura, gesto dopo gesto, le dita che flirtano con lo spago e i materiali dell’imballo, con movimenti lenti ma decisi, libera il piccolo quadro da tutto quel che lo circonda.

Eccolo.

Paolo ha un moto di soddisfazione e di conferma.

Tomaso lo protende verso di lui, Paolo lo afferra tra le mani, non ha bisogno di paragonarlo con l’illustrazione, lo avvicina agli occhi, annusa la pittura, cerca il tempo, odora il passato, chiude gli occhi, li riapre inquadrando l’albero sulla destra, il pino marittimo, poi l’orizzonte giallo, la tempesta sullo sfondo, il vento che soffia su tutto.

Vede… la mia parte è quella del tempietto sopra la collina. E il fiume. Nel suo quasi non c’è traccia di acqua. Cosa le piace di più della sua metà?

L’orizzonte giallo. La mancata necessità di spiegare l’origine di quel giallo.

E’ il vento. La prima cosa che Hackert notò dell’Italia fu la forza del vento. Ne era ossessionato. Lo sentiva come qualcosa da cui proteggersi. Ma lo faceva impazzire, lo appassionava. Credo fosse per lui l’entità, l’essenza del vivere. E per questo cercava in ogni modo di fissarlo con l’arte. Fissare il vento. Beh, direi che ci è proprio riuscito.

Sì. Ci è riuscito.

Ho fatto degli studi sui suoi luoghi. Sulla sua Italia. Lo sa che è sepolto a Livorno?

Ah, be’, sì, sapevo in Italia, in Toscana.

Non se ne è più andato. Ha trovato il suo posto. Il suo vento, probabilmente. Lo so.

Lo sa?

Lo so che sta fremendo.

Tomaso sorride, guarda Irene che lo ricambia continuando a stringergli la mano.

Se vuole saperlo sto anche tremando.

Si immagina se decidessi di non farglielo vedere dopo che vi ho fatti arrivare fin qui?

Beh, sarebbe una crudeltà.

Invece no. Forse non sarebbe una crudeltà.

In che senso?

La crudeltà vera sarebbe farglielo vedere e dirle che non è in vendita.

Come?

Sono io che voglio tutto il quadro. Aveva escluso quest’ipotesi?

Tomaso è percorso da un brivido del tutto inatteso. No, non aveva pensato a quest’ipotesi come percorribile. Nella sua testa, venendo fin qui, ha sempre detto a sé stesso andiamoci a prendere l’altra metà del quadro.

Lei aveva parlato di venderlo, mi pare.

Mai detto. Nemmeno supposto. Ho detto se viene trattiamo.

Appunto.

Appunto. Trattiamo la sua vendita a me.

Ma no, no, non è così. Mi ha detto che mi avrebbe spiegato tutto, di come era venuto in possesso del quadro, delle opere che fanno giri assurdi e che poi…

E che poi tornano nel posto giusto. Mettiamola così. Anche la sua metà ha fatto un giro lungo, molto lungo, ma non ha ancora finito di girare. La mia sì.

Senta, ma dove sta? Perché non me lo fa vedere?

Perché non è qui, ovviamente.

Irene sposta la mano, ha un moto di rabbia, di buio. Tomaso perde la possibilità di esprimersi con le parole, chiude istintivamente il libro che teneva ancora sulle ginocchia e lo appoggia sul tavolino alla sua destra. Il rumore invade il silenzio della stanza, della casa, del paese.

Non posso biasimare la sua delusione. La percepisco. La condivido. Starei molto peggio di lei, mi creda. Ma mi creda anche che sarebbe da parte mia davvero cattivo farglielo vedere. Eppure, l’ha visto, ci si stava perdendo fino a un istante fa.

Ho visto la fotografia.

Ha visto che non dico menzogne. Non è poco.

Tomaso, con un gesto quasi infantile, netto, cieco, riprende la sua metà dalle mani di Paolo e velocissimo la riavvolge nella carta, fa per ricostruire tutto l’involucro.

-Perché reagisce così? Sta facendo il bambino.

Io? Lei mi fa venire fin qui per farmi vedere una fotografia e più che altro per vedere un’opera che non possiederà mai. Mi spieghi il senso.

Per rivederla, semmai. All’asta l’avevo già vista. Il senso è quello che poteva prevedere. La mia metà non è in vendita.

Nemmeno la mia.

Questa è la parte da approfondire.

Non c’è nulla da approfondire.

La delusione negli occhi e nella voce di Tomaso è evidente, si muove a lampi, altera l’articolazione dei suoni, il volto che perde la misura, persino i movimenti del busto, la mascella che si alza e si abbassa come se dovesse masticare, un senso improvviso di perdita, di invincibilità perduta.

-Irene, andiamocene, ti prego.

In quel preciso istante, Cristiano, alla reception dell’hotel di Sanremo, si sente rispondere che la signora Danse non è in camera, che ha lasciato i bagagli all’interno, ma che non ha dato notizie di sé uscendo, tre quarti d’ora fa.

Elvio Calderoni

Appassionato dello sport e di tutte le storie ad esso legate. Maratoneta ormai in pensione continua a correre nuotare pedalare parlare e scrivere spesso il tutto in ordine sparso