La Storia Ricorrente, 19a puntata

I fermo immagine della nostra vita sono lì a bloccare, sovente, una corsa. A pochi passi di distanza dall’immobilità di Cristiano e Georgia Joanna, ecco che Tomaso invade ed è invaso da Irene. Fermarsi non fermarsi correre proseguire ignorare osare.

Per preparare certe maratone, ad un particolare punto dell’allenamento, i runner arrivano a spezzare i chilometri in due parti lungo l’arco della stessa giornata.

Tomaso non deve allenarsi per nessuna maratona ma ha voglia di metabolizzare la consistenza che sente crescere dentro di sé mediante una corsa. Non fa il giro consueto che lo porta fino in Duomo ma sceglie di non uscire dal quadrilatero del silenzio, ha voglia sì di sfogare il denso che sente nell’animo ma è solleticato anche dall’ipotesi di rivedere la ragazza della vittoria alata e passa, ha appena percorso il terzo giro, davanti al portone che fa angolo sulla piazzetta.

 

Poi prende la via di Ca dell’Oregia e sbuca di nuovo su piazzetta Duse per poi correre tra Villa Mozart e Villa Necchi.

Irene si è allontanata da Villa Invernizzi con un pensiero fastidioso in testa: la disponibilità a credere nel nuovo che a volte fa a pugni con la non conoscenza, con la non comprensione. La stranezza dell’incontro con Georgia Joanna le sembra prefigurare un futuro difficile, l’affidarsi a persone nuove a cancellare il vuoto dell’assenza di quelle che fanno parte del passato, un gioco chiodato che viene così bene con Bertrando ma che fatica a prender quota col resto del mondo. Passeggia verso il ritorno a Palazzo Fidia e ha paura che non avrà mai una reale confideza con tutto il nuovo che si affaccerà sulla sua vita.

Tomaso la inquadra da lontano. Se ne accorge subito. E’ la stessa ragazza della vittoria alata, del cellulare che cade e fa rumore nel portone, la stessa ragazza che potrebbe essere simile a Irene Piovene. Georgia Joanna non gli ha ancora risposto – e di solito è sempre così rapida e solerte, così precisa, invece proprio adesso che servirebbe – e sente il cuore accelerare mentre rallenta.

La fermo la guardo non la guardo cosa le dico se la fermo ne avrebbe paura avrà paura di me, è sempre più bella mentre mi avvicino, il suo sguardo bellissimo potrebbe completarsi col mio, aiuto, se la fermo e mi riconosce come quello dell’androne del palazzo chiama la polizia ma se non la fermo ho perso un’altra occasione, ma del resto se la incontro così spesso allora abita qui, non nel palazzo, è chiaro, e quindi comunque era lei a doversi sentire in difetto, oddio sto facendo un pensiero borghese, altoborghese, da rampollo, da padrone.

Ma c’è proprio bisogno di stare a scartavetrare la parte più scema di ognuno di noi con questa insistenza? La fermo? Non la fermo? La guardo? Non la guardo? Si avvicina sempre più, io, ok, sto rallentando ma un altro po’ e corro sul posto, la scena è ridicola, se solo sapessi il nome, se solo osassi chiamarla come quella che le somiglia così tanto, solo per attirare l’attenzione e magari dirle che mi sono sbagliato ma che somiglia davvero tanto a una persona che sto cercando, ma che approccio inutile ed insulso sarebbe, vecchio come una cartolina illustrata, come un francobollo storto e sbiadito, ecco, ha lo sguardo basso, non mi vedrà mai, devo tentare o decidere di star zitto e rimandare. Tentare o rimandare? Tentare o rimandare, adesso, subito, qui.

-Irene?

Irene alza lo sguardo e istintivamente risponde, come svegliata da un sonno lunghissimo, un tono familiare che le si insinua all’interno.

-Sì?

Si guardano. Tomaso è paralizzato, non potrebbe continuare nemmeno a correre, perché ha capito che Irene è davvero Irene, che non solo è la ragazza della vittoria alata ma è anche la restauratrice a cui commissionerebbe il quadro.

-Ti chiami Irene quindi. Quindi sei tu.

-Io chi?

-Perdonami, scusami, io mi chiamo Tomaso. Tomaso Meregalli.

-Piacere.

Irene accenna un sorriso. E’ strano veder cancellato il pensiero che ha fatto qualche istante fa sul nuovo che fatica a farsi strada, sulle incomprensioni che hanno la meglio sugli incontri che profumano di futuro. Era stata infastidita da Georgia Joanna, un po’. Con questo sconosciuto che corre fastidio ancora zero, curiosità molta.

  • Peggio di così non potevo esordire. Ma sei davvero Irene Piovene, la restauratrice?
  • Addirittura. Beh, ho restaurato delle cose. Ma non credevo di essere così famosa.
  • Il web azzera il privato, anche nelle persone riservate. Ti sto cercando da un po’.
  • Tu cercavi me?
  • Sì. Sono drammaticamente attirato dal tuo mondo. L’arte. E, ok, ti ho vista mentre osservavi la vittoria alata…
  • Ah, ecco… mi hai beccata, non potevo proprio non avvicinarmi, è bellissima.
  • Sì, è bellissima. Io abito lì.
  • Ah. E perché mi cercavi? Anche se mi sa che sono io che ho trovato te, se abiti lì…
  • Beh, è incredibile, ti cercavo e sei venuta a casa mia.
  • Non proprio a casa, dai.
  • Il palazzo è tutto della stessa famiglia.Si pente l’attimo dopo aver pronunciato la frase, temendo che sia presa per boriosa, per gradassa.
  • E mi cercavi per?
  • Perché ho una metà di un quadro e voglio che mi aiuti a capire se esiste l’altra metà e se non esiste… vorrei commissionartela.
  • Un quadro a metà?
  • Un Hackert. Conosci?
  • Hackert…
  • Jakob Philipp Hackert.
  • Fine ‘700?
  • Esatto. Un vedutista. Lavorò molto in Italia. Io possiedo un suo quadro ma probabilmente è la metà di un quadro più grande. Devo fartelo vedere, assolutamente.

Irene si fida istantaneamente di quell’entusiasmo. Non si è più circondata di persone appassionate a qualcosa. Tutto il suo mondo di entusiasmi ed entusiasti è franato con la scomparsa di Alessandro.

Tutti quelli che li conoscevano hanno messo da parte, o li hanno taciuti, nascondendoli, tutti gli entusiasmi possibili e le hanno sempre mostrato la loro parte comprensiva. Il rispetto che si deve al dolore di una sposa vedova, di una ragazza a cui è capitata una sventura impossibile da superare a trent’anni.

Tomaso le sta mostrando un entusiasmo con cui non era mai venuta a contatto dopo la disgrazia. E’ come se i suoi occhi le dicessero, al di là delle parole che continua a pronunciare alterate, mosse, emozionate, che la felicità, d’accordo che si è nascosta, ma continua ad invadere ogni giorno il cuore degli uomini e delle donne, da qualche parte.

Elvio Calderoni

Elvio Calderoni
Ho vissuto senza sport per i miei primi 40 anni. Adesso diciamo che sto recuperando, dato che ho un sacco di muscoli e fiato ancora nel cellophane. Cultore della parola detta e scritta, malato di cinema, di musica, di storie. Correnti, già corse e da correre.