La Storia Ricorrente, 13a puntata

Torniamo a Sanremo, usciamo per un sabato dal Quadrilatero del Silenzio e pediniamo Bertrando e i suoi pensieri densi. Sul passato, sul futuro e su quel che si può immaginare. Sulle parole. Quelle che feriscono, quelle che non si dimenticano, quelle dell’amore, quelle dell’anima.

Soundtrack:

Thomas Feiner — Yonderhead

Bertrando si ritrova, nel salire verso la camera dell’albergo, con una sensazione che non avrebbe mai pensato di provare: la mancanza del luogo.

Di Palazzo Fidia. Di Palazzo Fidia adesso e di Irene. Di un tutto da fare e da costruire che gli sembra quasi più urgente del suo ritorno in gara al festival, con un brano di Marko perdipiù.

Si chiede, mentre l’ascensore lo conduce all’ultimo piano, quanto siano importanti i luoghi per un uomo della sua età e si chiede quanto sia importante l’età per un cantante o per un artista in generale. Quante volte ha fatto i conti quando aveva trent’anni: me ne restano da vivere circa cinquanta.

E poi a quaranta: circa altri quaranta, sono a metà. E a cinquanta, purtroppo solo una trentina. E a sessanta, sembra un secolo fa, ormai: una manciata di anni, forse venti, forse di meno che all’epoca ebbe qualche brutto momento a causa di un disturbo alla schiena.

E adesso? Adesso che il passato è una montagna rispetto alla valletta che c’è ancora da vivere è meglio non farsi attirare dai numeri e dai conti.

Bertrando, mentre entra in camera, tutto molto bello, tanti specchi, tanti mobili bordeaux, forse troppi e troppo bordeaux, visualizza il futuro con una valletta.

Si sdraia sul letto e non si sente stanco, non si sente vecchio, l’immagine della valletta negli occhi e nella mente. Un paesaggio di sole e di verde, due case una di fronte all’altra, identiche.

Una mucca isolata, vicino al recinto che delimita la proprietà. Le due case sono vicine e non sono distanti.

Si chiede se sta sognando, si tocca i pantaloni per rendersi conto se è cosciente e in veglia, si pizzica la pancia e dice a sé stesso che sono pochi nel mondo i settantenni con un ventre così tonico, affonda i polpastrelli sulla pancia e sente duro, poi si concentra di nuovo sull’immagine della valletta, si toglie le scarpe, chiude gli occhi e cerca di zoomare sulle due case.

Non sono così identiche, una è più rossiccia. Forse è anche più bassa. Bertrando mette le mani sul letto, il palmo inondato dal raso della coperta e gli sembra di vedere Marko nella valletta.

Marko che cammina con il suo cocker a fianco, degli zoccoli bianchi fuori stagione fuori tempo fuori tutto, dei bermuda azzurri e i consueti occhiali da sole, portati su quel viso, ora Bertrando è come se lo vedesse davvero e sta zoomando senza pietà sulle rughe, sulle imperfezioni del volto, quel viso beffardo ed arguto che poteva impensierire e togliere ogni certezza da un momento all’altro.

Quel viso che si impensieriva a sua volta quando si rendeva conto che era lui a ferire e che le parole, lo diceva sempre, possono avere una potenza che va al di là di qualsiasi immaginazione.

Tu puoi immaginare un viaggio. Il suo ritmo, le sue battute a vuoto e gli istanti indimenticabili. Anche i panorami che troverai, le variabili sono così poche.

Puoi immaginare una festa che inizia male e finisce bene. La noia dell’inizio, la pesantezza, poi una sorpresa di intimità, di far parte di qualcosa senza filtri.

Puoi immaginare le conseguenze di una decisione, un cambio di direzione, una città nuova. Le abitudini che prenderai facilmente, il posto col pane buono, il bar in cui prendere lo stesso caffè.

Puoi immaginare una casa da fuori e non esser così lontano dall’interno quando ci entrerai davvero. Sai già dove piazzerai il tuo divano bianco.

Puoi immaginare come ti starà un vestito. Sempre bene sulle gambe, meno bene sul tronco, che è troppo corto, che è troppo tozzo.

Puoi immaginare la sequenza armonica della mia nuova canzone. Fa maggiore, si b maggiore, sol minore, do maggiore 7. Variabili in questo caso pochissime.

Puoi immaginare la fine di una storia d’amore. Puoi giocare persino a pregustarne il dolore.

Quel che non puoi proprio immaginare è la potenza delle parole che scegli di metterti in bocca. Le conseguenze inimmaginabili, appunto, perché troppe sono le variabili e le possibilità, troppo diversi gli animi con cui vieni a contatto.

Ed è per questo che parlo così poco, concludeva Marko ridendo.

Per non rischiare, per non ferire.

E perché, Dio santo perché, non gli ho mai chiesto cosa feriva lui?

Cosa lo inteneriva?

Cosa gli chiederei adesso in questa valletta?

Mentre cammina con gli zoccoli che non fanno rumore sul prato, accarezza il cocker sopra le orecchie e mi fissa come per indurmi a chiedergli qualcosa?

Cosa potrei chiedergli se ce l’avessi qui in questa camera?

Altro che intervista, altro che cinque minuti, non mi basterebbe la valletta del mio futuro. Gli farei una domanda al secondo, sul passato che non ho vissuto con lui, sul presente ( cos’è il presente,adesso, esattamente? ), sulle possibilità, sul futuro che invece è impossibile proprio.

E tutte le volte, negli ultimi anni, in cui pensava di averlo dimenticato per sempre. Alzarsi dal letto e non sentire più il dolore. Pensare a tutt’altro.

Eppure tornarci, col pensiero, col corpo. Più dolorosamente con l’anima. Come se nessuno potesse avere lo stesso lasciapassare. Per l’anima. Per l’anima e per la valletta.

Squilla il telefono, lo strappa dalla valletta, apre gli occhi e vede sullo schermo il nome che sperava.

-Irene!

-Ehi… ti disturbo?

  • Ovviamente no.
  • Ti volevo dire una cosa. Sono uscita.
  • Ah, bene, hai fatto un giro in centro?
  • No, no, non mi sono mossa dal quartiere. Ma ho fatto benissimo perché sono incappata in una mostra meravigliosa.
  • Dove?
  • A Villa Mozart.
  • Ah, pensa che io non ci sono mai entrato. Ed è a dieci passi da casa mia, come hai potuto notare.
  • E’ una mostra di quadri fotografici con dei soggetti che indossano gioielli. Ma tu devi vedere che allestimento! Mi ha rapita.
  • Voglio vederla! Quanto rimane?
  • Mi sa che domani è l’ultimo giorno. Ha aperto ieri.
  • Infatti Villa Mozart non la aprono mai al pubblico. Un’occasione speciale. Domani non credo di fare in tempo.
  • Quando tornerai?
  • Credo martedì. Domani abbiamo le prove della cover e poi credo di tornare.
  • Com’è il clima?
  • C’è il sole. Ma fa anche freddo.
  • Intendevo…
  • Ah, ok. Bah… è strano. Ho il cuore a Milano, non so perché. Non che non tenga al festival, anzi, insomma… sai quanto sia importante per me il pezzo. Però, non so, mi sembra di aver lasciato lì un affare urgente. Forse è colpa tua.
  • Ahahahah…. mi devo sentire in colpa?
  • Un po’. Un po’ sì. Spero che Victoria non mi veda distratto, lei sembra tenerci più di me.
  • Che tipo è?
  • Timidissima. Un’altra cosa rispetto al web insomma. Sembra perennemente inseguita dalla paura dell’inadeguatezza. Non crede nelle sue doti canore.
  • E’ brava?
  • E’ Victoria.

Ridono. Qualcosa che somiglia alla felicità.

        • Non è brava, quindi?
        • Beh, si impegna tanto. Però se sei bravo non devi far percepire a chi ti ascolta che ti stai impegnando. Come con la bellezza. Se è inconsapevole, se non è forzata, non la dimentichi più, perché è vera, perché è necessaria.
    • Beauty is my favourite color. Questo è il titolo della mostra.
    • Anche il titolo è bello.

 

Elvio Claderoni

Ho vissuto senza sport per i miei primi 40 anni. Adesso diciamo che sto recuperando, dato che ho un sacco di muscoli e fiato ancora nel cellophane. Cultore della parola detta e scritta, malato di cinema, di musica, di storie. Correnti, già corse e da correre.