Sono le 5 del mattino. L’orologio della mia ansia suona sempre trenta minuti prima della sveglia. Quello di mia madre suona quindici minuti prima di quello della mia ansia e mente. Dice che sono quindici minuti dopo di quello che sono. Ormai da 46 anni. “Lulù…sono le 5”. Non è vero sono le 4.45 e la sveglia è puntata alle 5.30, ma poco male, ero già sveglia.
Il mare tira sonori schiaffoni alla scogliera. Una pioggerellina sottile vela il panorama delle 5 del mattino, ovvero un buio pesto e nero rotto dalla luce gialla dell’illuminazione stradale.
Mi alzo e il pavimento è freddo. Faccio una smorfia, uno sbadiglio e mi metto in piedi. Ho già tutti i vestiti pronti. Mi sono portata una valigia quattro stagioni, ma solo per il running.
Canotta termica, termica a mezze maniche, termica a maniche lunghe, divisa sociale con pantaloncino corto, corsaro, pantaloni lunghi di emergenza, calzini lunghi a compressione, calzini corti e sticazzi della compressione, pedalino della nonna. Per qualsiasi clima ho un asso nella manica, per la mia vita sociale ho una sola maglietta di ricambio. Ovviamente ho un kit “salva runner” post uragano da conservare in macchina con tuta, termica asciutta e giacchetta in pile chiamata “la pecora” perché sembra proprio il manto di una pecora, adatta a climi artici e anti polmonite.
Ho tutto. La borsa del cambio è pronta dalla sera prima come una partoriente a nove mesi e una settimana. Sono vestita, impermeabilizzata per le piogge leggere, posso andare.
Non mi va. Stavolta non è il solito non mi va, è che la pioggia battente la posso reggere per una 10km come è stato per la maratona delle castagne, ma per 27km di cui 8km in salita con un dislivello di 554m, no, non ce la posso fare.
Non sono masochista. Parto alle 6 di mattina per una gara che ha lo start alle 9, ma devo arrivare a Sorrento facendo 5 km sul percorso di gara e gli ultramaratoneti che fanno la 54 km partono alle 7.00 in punto. Resterei bloccata. Mi farò una pennica di un’oretta in macchina. Ovviamente sono rimasta con gli occhi sbarrati a fissare la pioggia sul parabrezza che smussava i contorni delle limonaie. Il paesaggio era distorto come in un sogno. L’atmosfera era surreale. La mia ansia alle stelle. Improvvisamente smette. Il cielo, uno straccio impregnato d’acqua sopra le nostre teste non vedeva l’ora di liberarsi di tutto quel peso, ma aspettava. Malvagio, grigio, ci irrideva con squarci lontani di luce del sole.
Siamo in griglia, lo sparo è chiaro e cristallino come non lo avevo mai sentito. Attonita, resto immobile per un istante a domandarmi “Ah, ma è questo che è?”
Il serpentone comincia a muoversi. Compatto ma meno voluminoso del solito. Un uomo saggio mi dice “Vedrai che non ci sono le stesse persone che incontri alle gare che facciamo sempre, è molto diverso” li per li non ho ben capito cosa intendesse, ho dovuto finire la gara, riflettere e solo allora ho capito, ripensando a tutte le persone che ho incontrato lungo il percorso.
Non è una gara per maratoneti alle prime armi come me. Io non sono nemmeno ancora ufficialmente una maratoneta. Ho corso una sola maratona con la sola forza della mia testa, una preparazione non adeguata alle mie criticità, troppo presto rispetto a quando ho cominciato a correre. Io non sono una maratoneta e cosa ci faccio in mezzo a tutta questa gente tanto più esperta di me, davvero non lo so. Me lo sono chiesto per buona parte del percorso.
Amo questi luoghi. Io sono napoletana ma da quando ho memoria le mie vacanze le ho trascorse qui, anche alcune festività natalizie. Ci sono stati periodi della mia vita in cui stavo più tempo in costiera che in città. Le strade su cui ho corso le ho percorse milioni di volte. Ci passavo con papà quando ero ancora solo una bambina. Ci ho portato mia madre a vedere il percorso di gara solo l’altro ieri. “Figlia mia tu si pazz’!” È stato il suo commento alla mia partecipazione alla gara.
Per certi versi aveva ragione, ma lei che ama questi posti anche più di me alla fine lo ha capito. Volevo farlo per vivere finalmente le strade della mia infanzia da vicino, per percorrerle sulle mie gambe, per sentirle ancora più vicine al mio cuore. Erano anni che volevo farlo.
In un attimo siamo lungo il corso. Le luminarie sono stupende come ogni anno, le vetrine curate rimandano a una via del secolo scorso, la gente che cammina per strada ci guarda un po’ incredula e un po’ attonita. Non possono capire il sentimento unico che muove quel serpentone di gente, per molti versi ci considerano “strani”, se non addirittura “con qualche rotella fuori posto” visto che corriamo in un giorno di inverno, in canottiera, sotto la pioggia battente.
Il cielo ha deciso che è il momento di strizzare lo straccio. Al terzo chilometro arriva la pioggia. Battente, incessante, costante. La salita sembra un fiume. Le scalette di pietra tra le limonaie sembrano cascate. Ai lati della strada si raccoglie l’acqua in un fiume di pioggia.
Qualcuno torna indietro, qualcuno si ferma sotto una tettoia. Dietro di me un uomo esclama “sono partito e non ho intenzione di fermarmi fino al traguardo. Mi fermo solo se l’annullano”.
La sua determinazione mi ha dato coraggio. Ho continuato. Camminando e correndo. Ho seguito per un po’ il passo di un signore. Sembrava un metronomo. Costante, inarrestabile, incessante. Come la pioggia. Un vero maratoneta. Io ancora non ho imparato a mantenere un passo costante, ancora non riesco a mettere in comunicazione passo e respiro. Lo superavo, ma lui inarrestabile mi raggiungeva. Aveva una maglietta verde con scritto Bollate Running.
Al ristoro abbiamo scambiato qualche parola. Mi ha dato preziosi consigli, mi ha incoraggiata, mi ha raccontato che sono 55 anni che corre e che non si sentiva affatto in forma, ma aveva tanta voglia di correre. È stato bello parlare con lui. Intanto la pioggia cominciava a darci tregua. Poche gocce e lunghi rivoli d’acqua bagnavano le strade come lacrime su un volto. Ero stanca. Molto stanca. Infreddolita e bagnata come un pulcino. Un pulcino atomico che non aveva alcuna voglia di arrendersi! Proprio ora che comincia la discesa! Non se ne parla!
Ho allungato il passo, le gambe andavano da sole, mi sono sentita libera, felice, leggera. Il vento dal mare lambiva la roccia nuda, in mezzo solo noi runners. Non era freddo, ma con tutti i vestiti bagnati era decisamente fastidioso. Le pulsazioni erano a palla. 189 battiti. Ho molta paura. Quando si parla di cuore, inteso come organo, mi agito subito. Scendono molto lente rispetto al solito. Mancano pochi chilometri al traguardo, le gambe vanno alla grande, ma perché proprio adesso? Cammino. Mancano 300m. Sai cosa? Sticazzi!
Allungo. Allungo e vedo il display del tempo. Ci ho messo una vita, ma adesso devo risparmiare quei pochi secondi. Allungo forte. Non mi importa del cuore, dei battiti, dell’infarto, sono solo le gambe che vanno, vanno forte, vanno da sole, vanno libere. Passo il traguardo.
Sono arrivata. Stavolta ho dato tutto. È vero, ci ho messo una vita, sotto l’acqua, esposta al vento, in salita per 550m, ma è stato bellissimo. È stato emozionante vedere casa mia dalla chiesa di San Liberatore, è stato emozionante passare accanto alla chiesa e dire “San Liberatò…aiutami tu”, è stato emozionante passare davanti all’albergo dove facevo le vacanze da bambina, è stato emozionante incontrare tante persone straordinarie che hanno corso accanto a me e mi hanno sostenuta.
Non la rifarò il prossimo anno. La rifarò quando mi sentirò pronta. Arrivederci a presto Panoramica. Un po’ assassina, un po’ madre, un po’ amica d’infanzia.