La laurea come una porta dei sogni

Ventiquattro anni fa, tondi tondi, mi sono laureato.
Lettere. Università La Sapienza di Roma.

Quel giorno, mezza vita fa, ha avuto un suo presente, un suo passato, un
suo futuro.

Passato.

Provenendo da cinque anni faticosi di liceo scientifico ( le scelte dissennate dei quattordicenni completamente disorientati ), giungere di fronte alla Minerva e valicare la porta d’entrata della Facoltà di Lettere e Filosofia mi sembrò un sogno. Poter scegliere tra duecento corsi una meraviglia. Perdermi tra i quattro piani dell’edificio, incuriosirmi nelle aule, percorrere quelle scalinate, sia quella esterna, epica, che quelle interne con quel colore verde scuro, mai illuminate bene ma sempre percorse da giovani e da docenti con qualche buona idea in testa, immaginare il futuro.

Da matricola frequentavo sei giorni su sei, sabato compreso. Non avevo ancora il pallino della letteratura, ma solo una sete indefinita di conoscenza, di confronto, di apertura. Mi sentivo un libro bianco che doveva ancora esser scritto da qualcuno e passavo, senza soluzione di continuità, dal corso di filologia romanza a quello di metodologia della critica dello spettacolo a quello di storia della musica fino a letteratura latina. Una sorta di scheggia impazzita, non sempre entusiasta, eh, ma comunque decisamente alla ricerca. Era l’anno della Pantera. Il sogno si interruppe dopo due mesi con l’occupazione degli studenti. Per riprendere in primavera, con la fine dei corsi e i primi appelli. Andai avanti con baldanza e ancora oggi, per addormentarmi  meglio, immagino di percorrere, in lungo e in largo, i 4 piani di Lettere, di fermarmi alle macchinette dove si inseriva il libretto elettronico o a quelle del caffè, di indugiare nell’amata biblioteca di
italianistica, di esser invaso dal misterioso profumo di crema del secondo piano, di chiedermi perché il primo piano, filologia classica, era così spesso al buio, di scendere giù fino al museo dell’arte classica, o di tornare alla mensa di via De Lollis o di passare davanti al teatro Ateneo e alla cappella con le salette studio sottostanti. Una coccola per l’anima, rassicurante nella sua pseudo eternità.

Presente.

Il giorno della laurea, aprile ’96,( aprile è sempre stato centrale per le svolte della mia vita e quella mattina il sole illuminava non timidamente sia la statua della Minerva da non guardare mai negli occhi che i vialetti che conducevano al rettorato, rigorosamente da evitare di passarci sotto il giorno dell’esame, figuriamoci della laurea! ) indossavo un’improbabile giacca giallina, fortunatamente messa sopra la stessa camicia con cui avevo sostenuto sia l’esame di maturità orale che tutti e venti gli esami che mi avevano portato fin lì. Ricordo l’emozione di finire un percorso senza l’ansia del dopo, aspettative indubbiamente nebulose, sia negli intenti che nelle possibilità, ma nella consapevolezza che fosse l’unico percorso possibile. Insomma, una sorta di “sono nel posto giusto”, circondato da parenti ed amici, festosi e vogliosi di condividere l’ultimo passo di formazione. Tesi in storia e critica del cinema. Commissione che decise di non attribuire
lodi quel giorno ( parole del mio relatore. Ma sarà vero? ). 110.

Futuro.

Quel che quel giorno proprio non avrei potuto concepire, sebbene potessi anche avere la lungimiranza di farlo, era che la laurea poteva fungere, nella vita di ognuno, come la porta dei sogni. Sì, ero troppo preso
dalle materie, dai corsi, dalle amicizie e dagli incontri per capire che la laurea mi potesse aprire davvero il mondo delle possibilità. Capire chi sei, cosa vuoi, fin dove puoi arrivare, capire le cose che ti
vengono facili e quelle che ti risultano ostiche, trovarti comodo nelle situazioni oppure scomodissimo. Dunque, smaltita la sbornia letteraria e cinematografica dei contenuti del mio percorso di studi, mi trovai a
capire che è grazie a quel pezzo di carta che ho potuto costruire un futuro che mi somigliasse. Mediante il lavoro, certo. Ma soprattutto mediante la conoscenza e la curiosità. Quest’anno compirò 50 anni e forse è ora di cominciare a smettere i panni del giovane incuriosito dal mondo e indossare quelli del consigliere borioso e paternalistico ( spero di non esserlo mai! ), per cui posso affermare, e mi rivolgo agli strani maturandi del 2020, timorosi oggi più che mai di affacciarsi al futuro, alle prese con un esame ancora più enigmatico, nella modalità e nello stato d’animo e nelle certezze che arriveranno praticamente tre ore prima di sostenerlo, che l’Università, qualora si abbia il privilegio di poterla frequentare, è il posto in cui possiamo togliere la polvere dai libri. Il posto in cui si allentano le maglie delle interrogazioni lasciando lo spazio per far entrare le passioni, in cui il senso del dovere confina, più volte, con quello del piacere. Il luogo in cui si diventa grandi?

Forse sì. Più che un luogo, una camera immensa. Con una porta in fondo a destra che può condurre ai sogni. Sogni di vita, di costruzione, di carattere, di unicità.

Vale la pena entrarci.

Elvio Calderoni

Elvio Calderoni
Ho vissuto senza sport per i miei primi 40 anni. Adesso diciamo che sto recuperando, dato che ho un sacco di muscoli e fiato ancora nel cellophane. Cultore della parola detta e scritta, malato di cinema, di musica, di storie. Correnti, già corse e da correre.