In un tramonto milanese di inizio febbraio, 4.

Irene ha raggiunto la casa di Bertrando a Palazzo Fidia. Tra i due si sta consolidando un legame istintivamente forte. Cristiano è appena tornato dal viaggio di nozze con Victoria. Ma la prima persona che vuol vedere al ritorno è Georgia Joanna.

Subito dopo, la sua attenzione è richiamata di nuovo dalla finestra, da voci che interrompono il silenzio delle strade, che echeggiano nel tramonto, colorate più del cielo:

“Ah, be’, giustamente. Lui torna dal viaggio di nozze e subito, il primo giorno, tennis! Ma non ti hanno informato che l’uomo è nato per lavorare?”

“Ahahah, leggende. L’uomo è nato per essere felice. Vieni qui.”

Cristiano appoggia la borsa del tennis alla sua sinistra e abbraccia l’altro a due passi da Villa Necchi.

“E come va la vita matrimoniale?”

“ E che ne so, fammela fare, domani parte per Sanremo e sarà lì tre settimane.”

“Cosa va a fare?”

“Due cose diverse. Ufficio stampa per gli Alkermes e duetto con Bertrando Berna, il pezzo di Taglia, no?”

“Ah, già. Vincitore annunciato, mi pare.”

“E’ bellissimo, effettivamente. Ho sentito i provini. Vincitore annunciato non so, in pochi ci credono che sia stato davvero preso da un cassetto, qui dietro. La cosa strana è che io non ho mai incontrato né Taglia quand’era vivo, né Berna che pare ci si stia trasferendo in pianta stabile.”

“Ma ti pare? Non lascerebbe mai Bologna quello.”

“Beh, forse, con Palazzo Fidia tra le mani ci penserebbe su.”

“Vai a farti sta partita. Con chi perdi?”

“E’ la prima volta che incontro questa persona, quindi non so se è più forte di me.”

“Non giochi con Luca?”

“No, gioca con me. Scusa il ritardo, giornata lunghissima”.

Georgia irrompe nello spazio visivo e conversativo dei due, gonnellina bianca da professionista, t shirt rosa fuxia assai meno professionale e l’emozione trattenuta a stento.

“Vi lascio, buon match! Ciao Cristiano.”

Silenzio misto a mobilità veloce, i due raggiungono il campo da tennis senza una parola. Villa Necchi è come assorta nella luce dell’imbrunire, foglie che contornano i tetti ( da dove saranno cadute? ), un giallo decadente sul suolo, un indiano che pulisce il bordo della piscina con una pezza, due coppie che fumano nel cortile del bar all’aperto, qualche turista in uscita dall’interno della villa, in silenzio anche loro. Georgia che incrocia lo sguardo di Cristiano e non può non baciarlo, non può non sfibrarsi consapevolmente l’anima nel rivederlo quindici giorni dopo il dialogo al buio, dopo il fenicottero, dopo il matrimonio.

“E come sono andati questi quindici giorni?”

Entrano nella villa, la luce è diversa da quella di due settimane fa, non è il tramonto, è proprio gennaio che cede a febbraio, promesse di novità e tagli di luce nuovi, una sorta di cambio alla direzione della fotografia da una scena all’altra.

“Sono andati lenti. I tuoi?”

“No, no, fammi una lista di eventi con i verbi.”

“Non farei in tempo”

“Non sei capace a giocare e a parlare? Dai, voglio solo dei verbi.”

“All’infinito?”, Georgia sorride, sorride ancora, chiede conferme al cielo alzando lo sguardo, si imbarazza, Cristiano Davide Cavalcabò rimane uno sconosciuto su cui ha googlato molto e fantasticato altrettanto in questi quindici giorni, uno su cui non avrebbe scommesso un centesimo che si sarebbero rivisti dopo il dialogo al buio, la mattina del fenicottero e di un bacio fugace, l’ultimo bacio prima del matrimonio, la classica fuga cretina e mentale, lo slancio vitale della libertà. Poi “domani giochi a tennis con me? Sto tornando”. Lì per lì il pensiero dominante: che scema sono stata a dargli il numero, che senso hanno gli uomini, il corteggiamento ignobile prima e dopo il rito, il bacio preludio di altro, carne da macello. Le ha pensate tutte prima di rispondere. E di rispondere “Posso solo al tramonto”. E lui: “Alle 16,30. Prenoto.” E l’idea folle di andare a San Babila la mattina dopo ce l’aveva avuta sul serio. Per vedere come stava senza la racchetta, non sudato, senza il completo da tennis, senza il contorno di un esterno di buon mattino e senza il buio di un dialogo e di un incontro. Non l’aveva fatto. Cacciato subito, il pensiero, tra le intenzioni da non ascoltare.

“Arriva questa lista?”

“All’infinito?”

“Ho già risposto sì. Prendi le palle dalla sacca, per favore?”

Entrano in campo, cominciano a palleggiare.

“Lavorare. Sodo”

“Senza aggettivi, per favore”, battendo il servizio.

“Fantasticare.”

“Bello. Poi?”

“Arrabbiarmi.”

“Prevedibile.” Sale subito sotto rete, demi-volée.

Georgia è in evidente difficoltà emotiva e sportiva, cosa ci fa, a due passi dal tramonto, con una racchetta in mano ( Quanto tempo sarà passato dall’ultima partita a tennis? Dodici anni? E con chi era e dove? ) a stare al gioco di quest’uomo ( in 15 giorni possono crescere così tanto i capelli, così tanto la barba? ) che continua a proporre, con la fede all’anulare che svetta su tutto il resto e che lei continua a guardargli, timorosa sorpresa rapita, giochini a metà tra flirt e controllo della situazione, padronanza di eventi e sentimenti.

“Dubitare.”

“Riesci a spararmeli senza pause, anche tra un tocco della palla e l’altro, non aspettare di colpire per dirmeli, dai, ti prego, più veloce, più interi, più sinceri.”

“Ripensarci. Ridere. Aspettare.”

“Belli questi tre. Altri tre, ti prego”, Cristiano cerca di decelerare il ritmo dei colpi, di rispettare la ruggine tennistica di lei, di farla stare più a suo agio senza sorprese agli angoli del campo, senza palle bastarde, permettendole di muoversi di meno.

“Riflettere, mangiare, googlare.”

“Questi tre meno belli, ma, si sa, dopo una cosa bella c’è spesso una cosa brutta, o meno bella. Ripetimi i tre di prima.”

“Ripensarci”

“Ridere”

“Aspettarti.”

L’ha detto, l’ha proprio detto e mentre lo sguardo basso era giustificato dal raccogliere una palla finita a rete, detto mentre avanzava a metà campo e vista così somiglia davvero a una persona senza schemi, né tennistici né tattici né di testa in generale, e Cristiano che la raggiunge a rete e la bacia, meno fugace di prima, meno furtivo e ladro del dialogo al buio, meno sorprendente, più dentro le cose, non solo due bocche, ma mani su spalle e schiena, adesione delle pance con la rete in mezzo, nessun controllo nessun riguardo per chi potrebbe passare né per loro, soprattutto per loro.

Elvio Calderoni

 

Elvio Calderoni
Ho vissuto senza sport per i miei primi 40 anni. Adesso diciamo che sto recuperando, dato che ho un sacco di muscoli e fiato ancora nel cellophane. Cultore della parola detta e scritta, malato di cinema, di musica, di storie. Correnti, già corse e da correre.