Il piccio del tramonto

Sono un ritardatario.

Ho fatto sgarbatissimi ritardi nei confronti di tante persone, cosa della quale non vado affatto fiero.

Ma per una sorta di par condicio ho fatto anche tantissimi ritardi che hanno penalizzato solo me: ho perso treni, aerei, autobus, traghetti, occasioni professionali, opportunità lavorative, incontri risolutivi.

E sapete una cosa? Non mi sono mai scomposto.

So che in qualche modo il ritardo fa parte del mio karma, so che ogni volta mi succede qualcosa di imprevisto (e dal mio punto di vista imprevedibile) e accetto con filosofia gli scherzi del destino, insieme a tutte le seccature e le inevitabili conseguenze dei miei ritardi.

E naturalmente accetto con altrettanta filosofia i ritardi altrui, sia se mi capita di essere io quello che deve aspettare, sia se mi capita di far tardi da qualche parte per colpa di altri.

Insomma, non rompo le scatole a nessuno, men che meno per questioni di orario.

C’è però una circostanza in cui mi sto riscoprendo ansiogeno e petulante, e la cosa mi sta accadendo sempre più spesso.

Mi succede quando mi fisso che devo riuscire ad arrivare in tempo per vedere il tramonto.

Cioè, ci sono delle volte in cui il posto è particolare, o la giornata è stata particolare, o la compagnia è particolare, o tutte le cose insieme, e mi prende il piccio che devo vedere il tramonto.

E mi trasformo nel bianconiglio di Alice, vado in sbattimento, controllo ossessivamente l’orario, inizio a dire che è tardi, minaccio di andare senza aspettare, poi invece aspetto, ma continuo a mettere fretta. In una parola, divento insopportabile.

Perché c’è poco da fare, un tramonto di certo non ti aspetta.

Se arrivi tardi lo perdi e basta. E certe volte è davvero un peccato.

Ieri, ad esempio, eravamo arrivati in un Marina dopo una lunghissima bolina con un bel Maestrale: eravamo cotti di sole, impregnati di sale e con quel sorriso felice che solo le giornate di maestrale sanno regalarti.

Concluso un ormeggio un po’ rocambolesco (perché anche nel Marina il maestrale continuava a sparare) avremmo dovuto solo aprirci le birre e sorridere felici guardando nel vuoto.

E invece eravamo a Piskera, e dalla collina si gode un tramonto spettacolare, e la giornata era stata bella assai, e insieme eravamo stati molto bene, e insomma mi è venuto il piccio del tramonto.

E mi sono trasformato in una specie di ossesso, costringendo grandi e bambini e cane ad una serie di operazioni sgradevolissime in quel momento, come cercare le scarpe chiuse (non le usavamo da giorni); recuperare le scarpe chiuse (tutte finite in qualche gavone recondito nelle rispettive cabine); infilare le scarpe chiuse (una specie di tortura); arrampicarsi su una collina pietrosa. Il tutto con me che mettevo fretta e dicevo “muovetevi” e minacciavo di andare da solo e poi invece rimanevo e continuavo a dire “muovetevi”.
L’unico che pareva apprezzare la situazione era proprio il cane.

E poi siamo arrivati in cima, appena in tempo.

Non so dire se è stato anche a causa del fiatone, o dell’adrenalina, ma lo spettacolo è stato davvero emozionante.

E quando il sole è andato giù è partito addirittura l’applauso.
E mentre stavamo scendendo la mogliera mi ha addirittura detto grazie, per aver insistito.

Perché c’è poco da fare, un tramonto di certo non ti aspetta.
Ma se arrivi in tempo può essere un’esperienza di quelle che poi ti rimangono dentro.