Oggi a Parigi si è disputata la maratona, vinta da un Etiope magro magro magro, Tamirat Tola, che ha concluso la gara tagliando il traguardo all’Esplanade des Invalides in poco più di due ore.
Ora, chi pratica la corsa sa bene quanto è duro correre una maratona. Si dice che il percorso si corra per i primi trenta chilometri con le gambe, per i successivi dieci con la testa, per gli ulteriori due con il cuore e per gli ultimi dannatissimi centonovantacinque metri con le lacrime agli occhi.
Già costringere il corpo umano a percorrere quella distanza è estremamente faticoso, farlo poi in quel tempo è disumano.
Percorrere 42 chilometri in due ore significa tenere un ritmo di un km ogni tre minuti. Se un giorno vi trovate con le scarpette da corsa ed un telefono in mano, provateci a correre a quel ritmo. Io personalmente faccio fatica a tenerlo per più di quattrocento metri, quegli alieni lo mantengono per 42 Chilometri.
Eppure c’è chi fa ancora di più.
Esistono le Ultramaratone, corse che si protraggono per centinaia di chilometri, in cui selezionatissimi atleti, avvaledosi delle tecnologie più avveniaristiche, corrono per giorni e giorni, percorrendo distanze impensabili.
Ed eravamo proprio alla partenza di un’Ultramaratona, la Westfield Sidney-Melbourne, quando la mattina del 27 aprile 1983 una decina di allenatissimi ragazzi tra i venti ed i trent’anni si preparavano a intraprendere quella che era considerata la gara più estrema del mondo: 875 chilometri tra le Highlands Australiane.
Gli atleti, che appartenevano ad una selezionatissima elite a livello mondiale, si conoscevano tutti e si squadravano sottecchi mentre facevano riscaldamento nei loro abiti tecnici prima della partenza; nell’aria fresca che precede l’alba stringevano le scarpette e scambiavano qualche battuta tra loro, preparandosi psicologicamente ad affrontare una prova ai limiti delle possibilità umane, quando videro arrivare un vecchietto in tuta e stivali da lavoro, che sembrava pronto ad arare un campo, ma assurdamente indossava la pettorina con il numero identificativo dei concorrenti dell’Ultramaratona.
Pensarono ad una burla, ad una stramba trovata pubblicitaria, e non mancarono le risatine e le alzate di sopracciglia, che si trasformarono in aperta incredulità quando scoprirono che non si trattava di uno scherzo: il concorrente misterioso era Cliff Young, aveva 61 anni e non era un corridore professionista come tutti gli altri: di mestiere coltivava patate ed allevava pecore.
L’assurdità della situazione era evidente a tutti, ma non ci fu il tempo per approfondire la questione perché il sole stava per sorgere dietro lo sterminato altopiano di Sidney, e la gara doveva partire.
E così nel momento esatto in cui il sole fece capolino all’orizzonte, fu sparato il colpo di pistola e gli atleti scattarono oltre il nastro, iniziando a buon ritmo il loro lunghissimo percorso.
Tutti tranne uno.
Si perché i giovani ultramaratoneti in scarpette tecniche e canotte traspiranti iniziarono a correre, mentre Cliff, l’ultrasessantenne in stivaloni e tuta iniziò a camminare dietro di loro.
A buon passo, ma pur sempre a camminare, suscitando risate e commenti tra i team di supporto dei corridori, e qualche sguardo divertito dai corridori stessi che si guardavano indietro.
Quando verso mezzogiorno il gruppo di testa arrivò alla tappa del primo rifornimento, Cliff aveva già accumulato un notevole svantaggio, ma continuava lento ed imperturbabile col suo passo a metà tra una camminata veloce ed una corsa lenta; arrivati alla sera il ritardo era sostanziale, e già apparentemente irrecuperabile, quando ci fu un inaspettato colpo di scena.
Gli atleti dell’Ultramaratona erano allenati a correre per diciotto ore, per dormire e riposarsi le altre sei.
Cliff invece continuò la sua marcia.
Organizzatori e giornalisti pensavano che avesse deciso di ridurre il tempo di sonno, magari a quattro, o addirittura a tre ore, ma Cliff niente, continuava a camminare.
Gli altri corridori, gli Ultraman, i maratoneti di professione, gli atleti più allenati del pianeta con i loro team di supporto, le scarpette tecniche ed anni di traninig specifico correvano, lo raggiungevano, lo superavano, ma poi la notte si dovevano fermare.
Cliff imperturbabile continuava a spingere avanti i suoi stivaloni, col suo strano passo che non conosceva soste.
Dopo la prima notte Cliff recuperò lo svantaggio e si portò un po’ più avanti, ma fu recuperato e superato a metà mattinata. Il secondo giorno si ripetè lo stesso schema, ma il gruppo di testa riuscì a superare Cliff solo dopo mezzogiorno.
Si pensava che era impossibile continuare così, che prima o poi sarebbe stato costretto a fermarsi, e invece niente: il terzo giorno aveva accumulato tanto vantaggio che fu raggiunto e superato solo la sera; il quarto giorno non lo raggiunse nessuno.
Cliff tagliò il traguardo a Melbourne, nel parcheggio dei Magazzini Westfield, il pomeriggio del 2 maggio 1983 dopo aver camminato ininterrottamente per 875 chilometri percorsi in 5 giorni, 15 ore e 4 minuti, con ben dieci ore di vantaggio sul secondo classificato, entrando di buon diritto nella leggenda dell’Ultramaratona.
Il suo passo, quello strano passo a metà tra camminata veloce e corsa lenta, fu ribattezzato “Young Shuffle”, ed è stato in seguito studiato ed adottato da tanti sportivi e preparatori atletici.
Quando ricevette il premio di diecimila dollari, Cliff si dichiarò sorpreso, non immaginava nemmeno che fosse previsto un premio in denaro, e pretese di dividere il premio con gli altri cinque atleti che avevano concluso la gara, gli stessi che solo una settimana prima ridevano di lui, della sua tuta sporca e dei suoi stivali da lavoro.
C’è qualcosa nella Storia di Cliff Young che mi ha affascinato.
Qualcosa che riguarda tutti noi, quelli che affrontano la vita senza preparazione specifica, scarpe ultratecniche o strumenti sensazionali. Quelli che sembrano sempre nel posto sbagliato, con l’abbigliamento sbagliato, il capello in disordine, la faccia che non centra niente.
Quelli che pretendono di combattere Golia con una fionda, e qualche volta inaspettatamente ce la fanno, anche se sono vestiti in tuta e stivali da lavoro.
Quelli che hanno da mettere in campo solo il loro cuore, ma è talmente grande che alla fine decidono di dividere il premio con chi li aveva presi per il culo.
Quelli che magari non faranno mai parte della Storia, ma a modo loro sono protagonisti di bellissime storie.
#StorieDaCaffè