Dipinti in cerchi – ventottesima puntata

Rubato.

Tempo rubato.

A chi? A chi l’hai rubato il tempo, BluRose. E con chi? Con me? Con qualcun altro? E io sono il derubato o il ladro? E chi ringrazi per il tempo passato insieme se non me? E se mi ringrazi cosa significa questo biglietto? Un addio premeditato?

Non vuole arrivare a consultare il telefono di Blu, scoprire segreti che è certo che non abbia, gli sembra un passo troppo scorretto, l’ha sbloccato soltanto per avere la conferma che il luogo suggerito da Malvina per la conferenza stampa era stato scoperto prima da Blu. Poi non l’ha più toccato, l’ha lasciato dentro il comodino, indeciso se buttarlo o no.

Esce e comincia a camminare per Genova, temendo di impazzire, di non sapere a che punto sia della follia. Se è all’inizio, se ci è già dentro, se è possibile un percorso inverso, se la consapevolezza di sentirsi perduto lo aiuterà. Ad ogni angolo immagina diapositive gigantesche della storia d’amore con BluRose. Le visualizza come fossero reali e, appunto, visibili a tutti.  La vede stretta in un cappotto beige mentre attraversa piazza De’ Ferrari, poi la vede in bicicletta nella zona del porto turistico e poi mentre risale verso la scalinata delle caravelle, gli sembra di impazzire veramente perché vede una donna che sale di spalle e prende ad inseguirla, a chiamarla addirittura, prima a bassa voce, poi gridando:

–          Blu! Ehi, Blu! BluRose, sono qui!

La donna non si gira, affretta il passo e scompare oltre la corona di alberi. Gli stessi tacchi, lo stesso passo.

–          Bluuuu….

Jorge perde l’equilibrio tra il terzo e il quarto gradino della seconda serie di scale, si inginocchia e piange. Torna a casa esausto che è quasi il tramonto. Mangia una focaccia surgelata e cerca di concentrarsi su “Dipinti in cerchi”. Riguarda i materiali già pubblicati sui social, si compiace dell’ottimo lavoro portato avanti da Malvina e da tutta la squadra, i montaggi video e gli scatti sono magnifici, lo shooting della Piccola Londra ha qualcosa di speciale e di sospeso nel tempo, somiglia molto all’idea primigenia di far rivivere il passato e i suoi spessori con una luce tutta contemporanea, piena delle contraddizioni dell’oggi. Indugia sui contenuti dell’inizio, i primi provini agli attori, materiali anche non pubblicati e torna nuovamente alla scalinata delle caravelle, a seguire la suggestione della donna che ha provato ad inseguire poco fa. Guarda per la prima volta il video del giorno delle convocazioni su quella scalinata, con un montaggio che alterna lo slow motion a piccole accelerazioni, un gusto estetico che è ritornante in ogni uscita che finora ha caratterizzato il progetto, frutto di un lavoro a monte portato avanti nelle settimane precedenti all’incidente con il reparto del montaggio. Guarda il video e gli balla il cuore. C’è una donna di spalle che sembra la stessa che è sparita tra gli alberi in cima alla scalinata poco fa. Anche nel video è alla sommità, all’estrema sinistra, per qualche istante, sembra stia parlando con un’altra persona che però è fuori campo, non si gira mai, si muove poco, poi sparisce dall’inquadratura andando verso la persona con cui probabilmente sta continuando a parlare. Di quest’altra persona si vede, a malapena, un gesto della mano che fa cenno alla donna di avvicinarsi. E’ BluRose? Jorge cerca di ricordarsi com’era vestita la mattina dei provini quando gli fece la sorpresa di esser passata a salutarlo e, sì, potrebbe essere proprio lei. Ma cosa sta dicendo? E con chi parla? Quando la vide non era in cima alla scalinata, e nemmeno a metà, ma sotto, vicino le roulotte, vicino i macchinari. No, non può essere lei, che senso avrebbe? La mente viaggia e cerca soluzioni:

–          Pronto, Davide? Ciao. Sì, sono a Genova. Grazie, grazie. Ho letto il messaggio, lo so, ti ringrazio. Ascolta, ricordi il giorno dei provini alla scalinata delle caravelle, no? Okay. Mi serve di sapere se avevamo dei panoramici quel giorno. Se nel girato c’è l’ambiente, cosa si sente, se si distinguono le voci. Pensi di averlo? Perché mi piaceva un po’ sporcare con qualcosa di non lavorato. Di meno patinato, insomma. Okay. Grazie. Ma no, ma no, va bene anche domani, Davide. Ti ringrazio. Sì sì, anche via mail. Grazie.

Malvina ha raggiunto Peccioli con una notte di anticipo. L’ha vista avvicinarsi dal taxi mentre la sera si sta facendo notte e il paese sembra adagiato sulla collina sui cui è arroccato come in uno spettacolo, fatto per esser guardato da lontano e capito sempre più man mano che ci si avvicina salendo sui dolci pendii che si trovano sulla strada. Un silenzio sospeso la accompagna in questa ascesa, dopo il fuoco di fila di messaggi di convocazione alla conferenza stampa è partito questo tacere inaspettato che spera sia un segnale positivo di assenso, un preludio a un caos creativo fertile e produttivo, che sia il lasciapassare per un incipit di costruzione e futuro. Pensa a questo mentre passa per la prima volta sotto la passerella colorata Endless Sunset che collega le propaggini moderne del paese al nucleo originario. Pensa che sono settimane in cui ha annullato il suo passato, con fantasmi ( forse non ne ho affatto ), spessori, dubbi e tempo per annoiarsi o scoprirsi o crescere ancora o formarsi informarsi studiare. Tutti i suoi pensieri sono sul presente e, appunto, al massimo, sul futuro, come se le novità investissero lei come corpo nuovo, appena venuto al mondo, appiattendo la Malvina che ha lasciato a Napoli, probabilmente tra un gradino e l’altro della Pedamentina. Mentre scende dal taxi e comincia a salire verso il palazzo senza tempo le torna in mente di quando a Napoli organizzò una sessione di tango per le scale, di quanto fu faticoso trasportare il contrabbasso alla sommità della scalinata e convincere il contrabbassista e guardare negli occhi il suo vistoso entusiasmo quando si rese conto di quanta gente era venuta a sentir lui suonare e le due ragazze a ballare su e giù per i gradini, coinvolgere il pubblico nella danza, in un battimani impazzito all’indomani della pandemia, con i volti sorpresi di poter fare qualcosa insieme che fosse lecito e gioioso, senza sospetti verso l’altro, senza la censura del toccarsi, senza il divieto di sorridersi, senza tutta una serie di senza che erano stati protagonisti del quotidiano di Napoli come di qualsiasi altro posto del mondo. Malvina sale e incontra la parete muraria con gli occhi fotografati degli abitanti di Peccioli su piccole lastre che affollano tutto il muro sottostante la scritta “la felicità è una via”. Sorride di ammirazione e di incanto leggero, la sera è frizzante ma non ostile, il buio rischiarato da luci lievi, lampioni giallognoli e piccoli fuochi la cui luce fa bella mostra di sé dalle finestre che danno sulla strada di tre camere consecutive, tre salotti, probabilmente. Raggiunge il Palazzo senza tempo, curiosa di vedere dal vivo la terrazza sospesa. Passa attraverso varie sale, una con delle maschere di cartapesta ispirate all’Inferno di Dante, un’altra occupata da locandine di film a cartoni animati degli anni ‘80 ed ecco che intravede l’esterno e lo spettacolo della terrazza, uno spazio, legge nel depliant raccolto all’entrata, di 600 metri quadri, sbalzato di 20 metri da terra, con un parapetto, che non arriva al petto, di vetro trasparente tanto che sembra di stazionare in mezzo al verde delle colline circostanti. Esce all’aperto accolta da una ventata che sembra un effetto speciale ad hoc per convincerla che è nel posto giusto, un brivido di freddo la attraversa, un altro, a metà tra timore e meraviglia, la scuote mentre inizia a percorrere la terrazza verso il suo limite. Si sente trasportata, effetto del vento effetto del fascino del paesaggio effetto della sospensione del luogo, da una forza indefinibile che la commuove. Si ritrova gli occhi bagnati nell’appoggiarsi alla balaustra trasparente in ammirazione delle luci accese tra le colline. Di fronte a panorami del genere si è sempre ritrovata a fare il conto tra le case vuote e le case piene, un’ossessione che la accompagna da anni, e il gioco viene particolarmente bene di sera, quando le luci aiutano la credibilità dei conti. Stasera vincono le case piene. Di persone, di parole, di pensieri, di azioni che umani sconosciuti compiono dentro lo spazio che si ritrovano ad abitare. Delle abitazioni più vicine scorge anche i movimenti, i passaggi da una camera all’altra di un paio di figure e sente ancora di più la potenza evocativa del posto. Ad un tratto parte una musica da una delle sale interne che danno sulla terrazza, è “Another day of sun” nella versione solo piano di Angela Parrish, piano e percussioni che poi aprono anche al sax. Si guarda intorno e non vede proprio nessuno, in questo momento, guarda il cielo, inquadra le stanze in cui le due figure si muovono, si muove anche lei e si ritrova a ballare, sospinta dal ritmo. Cenni di passi, sempre meno timidi, più aperti ad occupare circolarmente, con movimenti laterali e veloci, buona parte della superficie della terrazza. Si lascia andare, sarà il vento sarà la musica, non si chiede più se qualcuno potrebbe vederla, decide di smetterla di vergognarsi di colpo, sicura che non ci sarà mai un momento in cui se ne pentirà, focalizza ancora le persone sullo sfondo, all’interno delle stanze illuminate, una finestra si apre, una persona esce in balcone e ne chiama un’altra, Malvina li guarda e si accorge che la stanno guardando, le sembra di captare i sorrisi e li vede appoggiarsi alla ringhiera, lontani eppure vicini, come per uno spettacolo e questo amplifica la sua ebbrezza, non la ferma, la musica sale, di intensità, probabilmente di volume, e il suo sguardo, senza mai fermare i passi ( che le stanno salendo da non si sa dove, non ha mai danzato, non ha mai studiato ballo ) torna ciclicamente alla casa che la sta guardando: adesso sul balcone c’è solo una persona, l’altra, le sembra un uomo con una camicia chiara e delle bretelle scure, è rientrato, ha tirato su una serranda e ha cominciato a suonare al pianoforte la stessa canzone. La ragazza al balcone, sì, le sembra sia proprio una ragazza, batte le mani a tempo e sembra di vederne il sorriso, Malvina sorride e vorrebbe un cannocchiale al posto degli occhi, ma continua a ballare, incredula, viaggiante, euforica, bella. Chiude gli occhi e li riapre a tempo, il pianoforte lontano almeno 500 metri ( ma quanti saranno? Forse è un altro paese, forse è un altro mondo ) si fa sentire sempre meno timidamente nella notte di Peccioli dando il ritmo alle stelle e agli aerei, ai pensieri e ai cuori intermittenti che occupano spazi e segmenti temporali.

“Malvina?”

La musica smette di colpo, il pianoforte della casa distante ci mette appena due battute in più ad arrestarsi, Malvina si gira verso il Palazzo senza tempo, alza lo sguardo e vede, nel buio, la persona che l’ha appena chiamata. Il fiatone, l’affanno per il ballo e per l’improvviso sentirsi chiamare.

“Chi è?”

“Sono Jorge. Ballavi benissimo.”

“Jorge?”

“Scendi?”

“Certo”

Il timbro della voce gli sembra la promessa di un ritorno a casa, il cuore batte all’impazzata per lo stop a sorpresa, per il sentirsi così esposta, così in linea col vento, così libera. Lo sguardo, mentre Jorge, ma sarà davvero lui, sta scendendo per raggiungerla, torna alla casa lontana, la serranda che si riabbassa, la ragazza che rientra in casa, qualcuno ha davvero battuto le mani a tempo? Qualcuno ha davvero suonato la stessa canzone?

“Vieni qui”

L’abbraccio in mezzo alla terrazza, al vento e alla sospensione tra le colline è una partenza per entrambi. Malvina scoppia a piangere, Jorge comincia cinque secondi dopo, ognuno ha le sue ragioni e tanta riconoscenza nei confronti dell’altro,

“Mi sei mancato tanto… scusami, scusami”

“Di che ti scusi? Devo scusarmi io.”

“Ma sei matto?”

“ Ti ho lasciata allo sbando. In un momento del genere, lo sto capendo soltanto adesso. O meglio, comincio a capirlo”

Le parole con le labbra sulle orecchie dell’altro, nell’abbraccio, che si fa più stretto. Le lacrime che scendono, il vento che le sposta a suo piacimento, le mescola quasi.

“Ti sto bagnando il cappotto…”

“Entriamo, avevamo detto ‘al vento’ e… ci abbiamo proprio preso, fa un freddo…”

Si slacciano, anche felici di tornare a un momento meno intenso, a volte l’intensità è insopportabile e se non si può rimandare, si cerca di troncarla, proprio come si fa col dolore. Il cinema del ballo e dell’abbraccio con le lacrime cede il passo a una zona più quieta, non meno febbrile ma più misurata nelle parole, negli sguardi, nei movimenti di entrambi.

“E’ successo davvero, Malvina. Non riesco a capirlo. Non ho mai provato tutto questo dolore. E non credo che sia finita qui, credo che la consapevolezza arriverà ad onde. Adesso sento un rumore sordo continuamente, nelle orecchie, dentro. Ma so che può peggiorare. Adesso ho rabbia, forse non ho ancora percepito il vuoto, il buio. Non lo so, cado continuamente. Non lo so, forse sto dicendo un mucchio di cazzate. So che ho dovuto lasciare Genova immediatamente. Non riuscivo più a star lì dentro”

“Lo credo. Non sembra vero.”

“No, non sembra vero. Nemmeno a me. Nemmeno dopo averla vista senza vita, averla vista chiusa in una bara, dopo il funerale. Sai, sembra che sia una rappresentazione, non una cosa reale.”

Il tono di Jorge a volte diventa descrittivo ai limiti del freddo per poi impennare in zaffate emotive che squarciano le emozioni di chi lo sta ascoltando.

“Forse siamo talmente abituati a vedere cose finte che il nostro sguardo non è più preso sul serio dalla mente. Dal cuore. Vediamo immagini, ce ne cibiamo di continuo e, senza saperlo, siamo abituati a sottrarre. A registrare lo scarto tra reale e immagine.”

“Penso sia alla base del progetto, no? Se ho capito bene.”

“Hai capito benissimo. Tu capisci tutto benissimo. Nessuno ce l’avrebbe fatta così, Malvina. Sei speciale”

 

Elvio Calderoni
Ho vissuto senza sport per i miei primi 40 anni. Adesso diciamo che sto recuperando, dato che ho un sacco di muscoli e fiato ancora nel cellophane. Cultore della parola detta e scritta, malato di cinema, di musica, di storie. Correnti, già corse e da correre.