Malvina ha raccontato, in una relazione scritta in aereo mentre tornava verso Merano, al legal della società gli accadimenti che hanno tempestato lo shooting senza rovinarlo.
Non sa minimamente se è giusto, se è sbagliato, se è indotto o se è spontaneo, se è troppo o se è troppo poco ma, come quando si hanno troppi pensieri e troppe azioni da portare a termine e decisioni da prendere, si fa una selezione di priorità e di compiti da assolvere. Il suo è la relazione. Oggettiva. E, anzi, già il farla le sembra troppo. Vorrebbe guardare a quest’esperienza, che sta confinando sempre più con la totalità della sua vita in questo momento, solo con occhi sorridenti e creativi, con la commozione di qualche minuto fa, al termine degli scatti, ma si sta accorgendo che così non può essere e che, okay, non si aspettava una passeggiata ma nemmeno una scalata verso cime sempre più impervie e si capta come un personaggio di un romanzo privo di tridimensionalità. Senza sentimenti o movimenti che non siano finalizzati ad un unico scopo. Sente come se dovesse pagare con il suo contrappeso ogni emozione positiva.
Ha mandato la relazione anche a Jorge, sperando in una qualche risposta ma i tempi del destino hanno compiuto il disastro della contemporaneità tra l’inizio del funerale di BluRose e la fine dello shooting. Comincia a pensare che anche la conferenza stampa dovrà organizzarla da sola ma decide di attendere almeno una mezza giornata:
“Malvina, non ci avete dichiarato il luogo. Ma che gioco è?”
Il messaggio di Tobia non ha tardato ad arrivare.
“Sarete informati di tutto quanto prima. Jorge è appena tornato dalla Turchia”
“Sì. Scommettiamo che Michelle Blanchard già sa tutto?”
Il funerale è stato veloce, uno scatto dopo un viaggio così lungo. La piccola cerchia di amicizie e quella ancor più stretta di parentele di Jorge ha partecipato in massa. La famiglia di BluRose non è mai venuta in Italia, ha qualche fratello in Belgio di cui Jorge non ha alcun contatto.
Assolute comparse, così lei gliele ha fatte percepire, come una naturalezza. Una conseguenza di scelte avvenute secoli fa. BluRose non ne ha parlato mai, non ha accennato a legami che le mancavano o a progetti di viaggi per rivedere loro o gli altri scampoli di famiglia in giro per il globo. Nessun bisogno, nessuna attenzione. La chiesa, se è mezza piena, lo è per Jorge, che a tutto sta pensando fuorché a farsi qualche scrupolo di avvertire i Dati.
L’azzeramento del passato inutile, delle relazioni superate dalle scelte, dalle lontananze, da nuove accensioni e da successivi spegnimenti, da brandelli di rapporti surclassati da quelli vitali, vibranti, adulti. Jorge ha vissuto tutto davvero velocemente, le mani sulla bara, gli abbracci in abito scuro, gli occhiali da sole a schermare, la città che partecipa a modo suo senza perdere il ritmo e il motore, una chiesa in cui non era mai stato prima, le parole dell’officiante vuote e fredde, a sottolineare la surrealtà del tutto. Una tumulazione altrettanto rapida quanto provvisoria e Jorge infila la chiave nella toppa di casa loro.
Appoggia le valigie di BluRose in corridoio, gli sembra siano passati dieci anni da quando ha lasciato questa casa. Si sente banale, programmatico e disperato quando si versa un bicchiere pieno di whisky ma lo butta giù in un paio di sorsi per poi lanciarlo contro il muro, contro un quadro che raffigura due elefanti. Il bicchiere vola sul tappeto, rotola qualche metro e finisce ai suoi piedi. Lo riprende in mano e lo scaraventa sul pavimento, stavolta si rompe in quattro o cinque pezzi. Si toglie le scarpe, si toglie i calzini, va sopra i pezzi del bicchiere di proposito e li schiaccia, scheggiandosi, ferendosi, finché il pavimento non si colora di rosso.
Continua, come in un ballo senza ritmo, a schiacciare i pezzi di vetro, a formarne altri più piccoli e più taglienti e a farsi male, a procurarsi dolore e ferite su entrambe le piante dei piedi.
– Dove sei? Dove sei finita?? Dove caaaazzzoooo seiiiiiiii?????
L’urlo che conclude l’ultima parola sembra perforare le pareti del salone e riecheggia negli specchi, nelle vetrine dei mobili opposti uno all’altro. La rabbia di Jorge non si placa, apre le valigie di lei e sparge abiti e piccoli oggetti per tutta la camera. Cerca di provocare rumori buttandoli sui muri, sui divani, sui tavoli, riempie tutte le superfici di tute, abiti, cinture, cappelli, stivali, confezioni di smalto, trousse.
E un casco che avrebbe potuto salvarle la vita. Jorge lo inquadra rotolare su una stuoia, lo afferra e ci spacca la porta finestra della cucina. Riprende a piangere accasciato subito dopo lo schianto dei vetri, i piedi continuano a sanguinare, assume la posizione fetale, la testa sul tappeto, il resto del corpo sul pavimento chiaro. Sente che è morta ogni parte di sé, che nulla potrà accadergli nella vita che potrà superare in importanza questo. Il futuro sarà trascurabile, per quanto possa durare.
Il cellulare di Lena continua a squillare da ore in un’inquietante alternanza di chiamate e messaggi da mittenti a loro volta mutevoli: la madre, il padre, i fratelli, tutti e tre. Tanya guarda i suoi tremori, percepisce il blocco allo stomaco, poi allunga lo sguardo sulla porzione di Roma che si esibisce affacciandosi dal Giardino degli Aranci, poi di nuovo su lei:
– Rispondi e amen.
– Ho mandato un messaggio mezz’ora fa in cui li rassicuravo.
– Ma tanto sanno che sei partita per Roma. Sapranno anche che ti hanno presa.
– Non hanno i social.
– Sì ma il web ti nomina in continuazione in questi giorni, non so se ti stai rendendo conto, che senso ha non dirglielo? Lo diranno loro a te. Non è una questione di social. Anche la tv ne sta parlando.
– Tanya, ho paura veramente. Non so come affrontarla con loro.
– Mi fai impazzire. Hai questo rospo nella pancia, con lo sguardo mi ammazzi perché ad ogni occhiata che mi dai mi dici “guarda che senza di te non sarei stata qui” e a me questa cosa, okay, mi riempie. Mi piace, la amo. Ma mi fa paura. Avresti perso una cosa del genere senza la mia spinta? Dimmelo.
– Se vuoi te lo dico senza gli occhi. Chiudili.
Tanya chiude gli occhi sorridendo.
– Guarda che senza di te non sarei stata qui.
Tanya si intenerisce, la bacia sulle labbra, le prende la testa tra le mani, unisce la sua fronte a quella dell’altra, poi unisce le guance verso la sera di Roma, le prende il telefono dalla giacca e glielo porge dopo aver cliccato su una delle tante chiamate senza risposta:
– Lena? Lena, guarda che devi tornare qui subito. Pierce sta male.
Lo dice quasi senza inflessioni dialettali, la voce ferma, un timbro inedito da doppiatrice.
– Che cos’ha?
– Non mangia, si muove poco, non… siamo preoccupati. Torna subito.
– Non posso tornare, mamma. Davvero. Non posso.
Lena scoppia a piangere, Tanya vorrebbe salvarle il momento, non farglielo ricordare come un dramma, uno strappo. Interrompe la comunicazione.
– Pierce sta male.
Nuovi singhiozzi, lacrime millenarie.
– Non ti accorgi che è un ricatto? Il più spregevole dei ricatti? Lena, ti prego. Non puoi vivere contro di te. Non puoi più farlo. La tua famiglia ti ama e ti aspetterà. Anche il circo può aspettare. Non ti perdi nulla di quel mondo. Perdi tutto di questo, invece. Perdi il viaggio, perdi le persone, perdi le emozioni. E devi essere felice. Meriti di essere felice. Non sono preoccupati per te né per Pierce, vogliono solo che tu torni da loro perché non conoscono quel che c’è fuori. Non possono accettare che tu possa essere anche altro. Che tu possa essere per qualcun altro. Come fai a non accorgertene?