Dipinti in cerchi – trentunesima puntata

I coach arrivano a Merano il giorno successivo alla conferenza stampa. Per prendere confidenza con i luoghi, per controllare che abiti, cappelli, oggetti, tele, quadri, penne, fogli e altri materiali siano filologicamente corretti, per concertare con gli operatori lo spazio di manovra concesso ai protagonisti, che arriveranno tra due giorni e con cui già da stasera si realizzeranno le call di approccio: questo lavoro così prossimo all’inizio del programma vero e proprio è stato ideato a distanza appositamente, per fare in modo che nel Kurhaus nessuno entri a parte loro dieci: i coach graviteranno in città, pronti a intervenire in caso di necessità di aiuto, per virare il canovaccio qualora si andasse fuori fuoco con qualche elemento di troppo o ‘di troppo poco’ e saranno presenti alle quotidiane riunioni di redazione, nonché in incontri, anche questi a distanza, in video, con i dieci interpreti, che, così sembra, non verranno ripresi dalle telecamere.

Malvina li accoglie con molta considerazione e un po’ di timore, nella sua disposizione d’animo trattiene ancora molto della brava studentessa, sussiegosa e diligente, rigida nella postura e ben attenta a modulare la voce su toni bassi, sia di volume che di tono, senza mai andare troppo in alto per non suonare poco educata, frasi brevi, brevi sorrisi, un misurato parlare con lo sguardo, rinunciando però a qualsiasi forma seduttiva, ambigua, poco chiara.

La giornata prosegue tra fugaci incontri con i coach, uno per uno e poi tutti insieme, il controllo dei social di tutti e dieci i protagonisti, quello sull’allestimento delle stanze, comprese quelle da letto, quelle che si vedono, con i personaggi già dentro il programma e quelle che non si vedranno, che ospiteranno gli attori che attendono di entrare nella trasmissione: l’assetto di partenza di Bloomsbury vedrà già nella dimora Vanessa, Virginia e Thoby, di ritorno dall’India. Gli altri arriveranno dopo l’inaugurazione della casa, appena successivamente. Jorge c’è ma a strappi, si assenta, poi torna, poi organizza brainstorming estemporanei con gli operatori e i curatori dello script, incontra i coach di straforo, è spesso al telefono ma ha regalato a Malvina un altro istante magico:
“Tu hai creato questa meraviglia. Questa è tutta roba tua, Malvina.”

Lo sguardo appena entra nel Kurhaus nell’alzare lo sguardo verso la cupola interna della rotonda, assai diversa da com’era prima dell’allestimento, più lucente, più coerente col resto, con questi vialoni che fungono da corridoi dove sembra di respirare davvero l’aria del tempo, le sale che si susseguono l’una all’altra, su cui Jorge sembra volteggiare dopo aver preso per mano Malvina, come se pattinassero.

“Ma che lavoro hai fattoooooo”
“Forse non ti ricordi ma è tutto come lo avevi preventivato con Michelangelo Bach, non ho proprio fatto nulla”
“Ma tu scherzi”

Lo sguardo è meravigliato davvero, non è per farla sentire importante o finalmente non più sola, non si aspettava che la sua assenza potesse essere coperta così bene. Fidarsi ciecamente di lei non avrebbe portato a tutto questo nemmeno con un’ottica delle più ottimistiche. E non in questo tempo così serrato.

L’incanto non dura che pochi minuti. Una telefonata trasporta Jorge fuori dal Kurhaus, un cenno di saluto a Malvina ed esce verso la passeggiata:
“Dimmi dimmi, Davide. Me l’hai mandato? Ah, c’erano i panoramici. Benissimo, si sente bene, quindi. Bene, bene. Quanto materiale c’è? Okay, fantastico, vado subito in hotel a guardarlo sul computer. Grazie infinite.”

La smania disperata di avere novità dalle persone che non possono più darcele è qualcosa che Jorge ha avuto dentro sin da adolescente. Cresciuto con sua nonna, quando questa venne a mancare, cercava tracce di lei nei cassetti, nelle lettere, nelle testimonianze dei suoi genitori e dei fratelli più grandi. Persino negli oggetti. Le sembrava di riportarla in vita, di sentire meno il peso dell’assenza e, persino, di far piacere a lei, di trattenerla ancora sulla Terra, a vivere i sentimenti, a star più vicina alle esperienze di tutti, alle angosce come alle gioie.

Non è esattamente lo stesso, adesso, che percorre le vie come un maratoneta ad annullare lo spazio che c’è tra il Kurhaus e la sua stanza d’albergo, attraversando il rione Steinach col piglio di un centravanti davanti alla porta l’istante prima di fare goal, che sale le scale due a due per raggiungere la camera, la borsa, il computer e, infine, il file su cui Davide ha lavorato e che gli permetterà, lo spera, di sentire ancora una volta, forse per l’ultima, le parole nuove di BluRose, se la figura in cima alla scalinata corrisponde a lei veramente o se è un’altra allucinazione, se quella gonna blu sia la sua gonna blu o quella di una visione senza identità.

Febbrile, fa partire il video, riconosce voci e sorrisi di molti dei protagonisti di oggi, adesso già molto più noti rispetto ai tempi del provino, con le facce che fanno bella mostra di loro praticamente in tutte le città d’Italia, sui muri, a grandezza naturale, a figura intera, o con primi piani che urlano la loro contemporaneità, iconici anche da sconosciuti, dipinti in cerchi come nei social ma ammalianti sincronicamente, più che virali. Lo sguardo di Jorge è fisso sul computer, scruta le facce e i movimenti, non vede traccia di quella donna, si chiede se Davide abbia preso tutti i materiali di quella mattina o se abbia fatto una stupida selezione a monte. Guarda due volte quei dieci minuti e non trova nulla, la mano vola verso il cellulare:
“Davide, scusami. Ottimo lavoro, davvero. Poi dico ai ragazzi dei social di mandarlo, così, crudo com’è, come lancio di qualche reel, da cambiare giorno per giorno, magari facciamo un minuto quotidiano, appena cominciamo, domani. Ma… sicuro non ci fosse altro? Perché nel video che abbiamo pubblicato c’erano delle inquadrature verso l’alto, qualcuno inquadrava il cielo e poi scendeva, ma proprio in cima, questo non l’ho trovato. Hai tagliato tu o non l’hai proprio tra le tue cose?”
Davide gli dice che ha tagliato ma giusto qualche frame.
“Mandami anche quello, mi piaceva il movimento di macchina, mi piaceva si partisse dal blu del cielo. Quel giorno era così chiaro. Sì me lo ricordo che è un po’ sgranato, ma non fa niente. Ovviamente con l’audio, eh. Grazie.”

 

Elvio Calderoni
Ho vissuto senza sport per i miei primi 40 anni. Adesso diciamo che sto recuperando, dato che ho un sacco di muscoli e fiato ancora nel cellophane. Cultore della parola detta e scritta, malato di cinema, di musica, di storie. Correnti, già corse e da correre.