Dipinti in cerchi – trentatreesima puntata

A Merano è scesa la notte precedente all’inizio.

Disseminati per la città, chi vicinissimo al Kurhaus, chi nel rione Steinach, chi nei pressi del giardino Trauttmansdorff, o vicino la passeggiata di Sissi. Proibito ai protagonisti di sentire più nessuno né di sentirsi tra loro, cellulari e pc requisiti appena arrivati in città, alle reception dei vari alberghi, non sono ammesse eccezioni e non c’è stato bisogno di ricordarlo. Addio ai cari, ai fans, alla vita del ventunesimo secolo per entrare, come in una camera di decompressione, negli anni zero del secolo scorso.

Lasciare le persone per diventare interpreti di personaggi ormai estinti eppure contemporanei, diventare Vanessa Duncan Virginia Thoby e tutti gli altri, un passaggio normale per i professionisti, un salto nel vuoto per i non professionisti. L’insonnia, le prove personali degli abiti, il trucco, la paura la paura la paura. Una paura che parla con sillabe storte e contorte per Lena, paralizzata al momento dalla prospettiva di non essere all’altezza, di deludere il mondo esterno dopo aver messo in gioco tutto il suo mondo, messo sul tavolo, probabilmente perduto, azzerato, dimenticato. Dorme nel rione Steinach.

Alla villa Westend, invece, in pieno centro troviamo i sogni di Fidel, tutti i suoi dubbi formato cosmico, le vene della fronte che battono, lui che esce nel freddo del balconcino e si guarda intorno, che ha aspettato fino all’ultimo una risposta di Sara che non è mai arrivata, ha chiamato suo padre l’istante prima di consegnare il cellulare, l’ha sentito sorridente e sospeso, assorto e vorrebbe tanto saperne di più. In una casa un po’ fuori dal centro città, con vista sul Trauttmansdorff c’è Narciso.

Dorme senza vestiti, ha trattenuto un walkman del 1987 con una musicassetta compilation di Depeche Mode e Cure. Sta apprezzando le sensazioni che si trova a vivere, da quelle tattili, le lenzuola le coperte i cuscini sul suo corpo nudo, a quelle visive con la terrazza che dà su un olivo di settecento anni, fino al silenzio secolare che la circonda, musica nelle orecchie a parte. Michelle, nell’hotel più vicino al Kurhaus, sta dormendo in una vestaglia filologicamente corretta, pretesa dai costumisti per prepararsi come si deve all’ingresso: sembra che sia stata indossata, al termine degli anni ’10, da Vita Sackville-West, prima che conoscesse Virginia Woolf.

Ha riletto la lettera che la scrittrice lasciò a suo marito Leonard la mattina in cui decise di metter fine alla sua esistenza, le è colato il trucco mentre la leggeva, alla luce del piccolo lume sul comodino, si è alzata per struccarsi e per raccogliersi i capelli, si è guardata a lungo allo specchio accarezzandosi le guance, il trucco non cola più, le lacrime continuano ancora un po’. Nathan è sul balcone della sua camera in centro armato di cannocchiale. Osserva i monti che circondano la città, le luci nelle case circostanti, i piccoli lampioni delle passeggiate, i neon delle vetrine di un parrucchiere e di un’agenzia immobiliare, o forse di un pub con foto di case come se si vendessero.

Tessa, stesasi sul letto, ha ricevuto, tutte insieme, le lame di verità degli ultimi giorni: l’assenza di Warren che dovrà convivere con una presenza quotidiana e frustrante se non annientante. Alloggia in centro anche lei, in un hotel a due isolati da Warren.

Per lui, un letto nero, contornato da pareti altrettanto scure, come se avesse ancora indosso gli occhiali da sole, prova a riposare di fianco e pensa che non c’è nulla che giri bene, fuori e dentro di lui, un coro svociato o una montagna senz’aria pulita. Bengala, pensieri baldanzosi ed esercizi di allenamento serali su un tappetino accanto al letto appena terminati, dormirà nella villa accanto a quella dove è alloggiata Malvina e dalla sua stanza, la borraccia in mano, sudato per gli ultimi piegamenti, sta guardando il fiume e gli sembra di intravedere due figure una di fronte all’altra, sembra quasi stiano improvvisando un numero di mimo allo specchio.

Tobia, faticando a prender sonno nel suo monolocale di fronte la passeggiata di Sissi, incurante delle regole non imposte ma consigliate, è uscito nella notte meranese e ha raggiunto la statua che raffigura la principessa, si è acceso una sigaretta, consapevole che forse sarà l’ultima per molto tempo, si affaccia sul fiume e inquadra, dalla parte opposta, oltre il ponte, una ragazza che lo sta imitando.

Si è appena accesa una sigaretta e lo imita in tutte le pose. Tobia sorride e cambia posizione, lei fa altrettanto. Lui fa tre passi verso destra, lei fa lo stesso. Lui guarda il cielo, lei ugualmente. Lui fa scappare una sonora risata, lei gli fa l’eco.
“Ma chi sei?”

D’un tratto scende il buio in tutta la città: i lampioni si spengono, così come i cartelloni pubblicitari digitali, le insegne, le vetrine che un attimo fa erano ancora accese.
“Ma chi sei?” ripete lei.
“Non mi vedi più, non puoi più copiarmi”
“Non mi vedi più, non puoi più copiarmi”
Tobia, l’unica luce è la sua sigaretta in bocca, si volta verso il Kurhaus e vede che è tutto spento anche lì.
“Tu hai paura?”
Nel buio totale la ragazza squarcia il silenzio con questa domanda.
“Di cosa? Di questo buio?”
“No. Di domani.”
“Che succede domani?”
“Che succede domani?”
“Ricominci?”
“No, scusa, è che pensavo fossi…”
“Pensavi fossi chi?”
“Non sei Tobia Spilimbergo?”
“No, non so chi sia questo Tobia.”
“Mi prendi in giro?”
“No, non so chi sia questo Tobia. E tu chi sei?”
“Martina Neva”
“E di cosa hai paura?”
“Di domani.”
“Capisco. Raggiungimi. E’ buio ma se segui il ponte dovresti farcela.”
Il percorso è semibuio, ma il riflesso dell’acqua del Passirio incoraggia Martina Neva che si avvicina verso Tobia. Lui allarga il sorriso man mano che lei si avvicina.
“Non mi cadere nel fiume, eh…”
“Sarebbe fuggire da domani”
“Un fuggire molto stupido.”
Sono a pochi passi. Tobia butta la sigaretta e annulla l’unica piccola luce che c’era.
“E così? Chi credevi che fossi?”
“Mi sembravi un attore. Ma sei sicuro che…”
“E di cosa hai paura?”
Tobia le si avvicina, le mette le mani sui fianchi senza aspettare alcun permesso, la trascina sul lungofiume.
“Vuoi buttarmi di sotto??”
“Non devi avere paura.”
“Beh, adesso un po’ ne ho… ancora di più”
“Ma no, mi imitavi così bene…” e mentre glielo dice la fa appoggiare sul parapetto che dà sul Passirio allargandole le gambe.
“Ehi, ma che…”

Le mette una mano sulla bocca, come ad imbavagliarla, e una tra le gambe, spostando la gonna e le mutande.

Lei è impietrita. Non e’ convinta che sia Tobia Spilimbergo ma non le sta piacendo quel che sta per succedere, eppure non si muove, non urla, non sa se mostrarsi consenziente o se fuggire lontano. In dieci secondi Tobia è dentro di lei, in piedi, si è abbassato la tuta e la penetra con forza, in totale silenzio.
“Se stai zitta tolgo la mano, giuro.”

Martina Neva non ha mai pensato di urlare, né di scappare e non capisce il motivo di quell’immobilità. Lui toglie la mano e continua a muoversi dentro e fuori di lei, con un ritmo meccanico e senza baci, le mani adesso sono sul sedere, poi sulla schiena, sul collo come ad immobilizzarla, poi di nuovo sul sedere.
“Brava. In silenzio è meglio. No che non sono Spilimbergo, o meglio, sì, lo sono, ma sono suo fratello. Ma non dirlo a nessuno.”

Martina Neva lo guarda, continua ad essere sospinta avanti e indietro dalle spinte di lui.
“Non mi denunciare che sta piacendo anche a te. E chissà quando ti ricapiterà.”
Lei alza la testa e la getta indietro come a fargli capire che sta godendo con lui.
“Brava, bravissima. Prendimi bene.”

Martina Neva pensa al freddo del parapetto e lo tocca con le mani, ghiacciato, sposta la testa verso destra, verso il rione Steinach e gli sembra di vedere un’ombra. Qualcuno, chilometri più in là, sta cercando di riparare il black out improvviso che ha messo al buio tutta la città.
Bengala sta assistendo dalla sua stanza a quello che sembra uno stupro. Non capisce se è semplicemente un atto reciprocamente voluto o una violenza vera e propria.
“Girati.”
Tobia, con tutta l’aggressività del mondo, esce da lei, la gira e la penetra dietro.
A Martina scappa un gemito di dolore.
“Zitta.”

La abbassa fino a metterle tutta la parte anteriore del corpo sul parapetto, la testa penzoloni che guarda il fiume.
I colpi si fanno più ritmati, secchi e veloci. Lei urla di nuovo.
“Zitta.”

Bengala è sul punto di chiamare la polizia, ma ha consegnato il telefono alla produzione perché non c’è la reception nel suo albergo e decide di scendere.
Martina Neva si tiene come può alla balaustra e prende altri colpi fortissimi.

La città illumina improvvisamente la scena, la corrente è tornata e Tobia sta sodomizzando Martina Neva proprio alla luce di un lampione della passeggiata Sissi, a pochissimi metri dalla statua. Un lampione che prima del black out era spento. Immediatamente si stacca da lei e le urla:

“Non ti girare o ti ammazzo, stai ferma lì. Non alzarti.”
Bengala, dalla camera:
“Ehi… ma chi c’è lì? C’è bisogno di aiuto?”

 

Elvio Calderoni
Ho vissuto senza sport per i miei primi 40 anni. Adesso diciamo che sto recuperando, dato che ho un sacco di muscoli e fiato ancora nel cellophane. Cultore della parola detta e scritta, malato di cinema, di musica, di storie. Correnti, già corse e da correre.