Dipinti in cerchi – trentasettesima puntata

Alle spalle di Jorge compare Tessa, si muove benissimo nell’abito blu di Violet Dickinson, come se danzasse.

“Che piacere rivederti!”
“Tessa… a Peccioli non c’è stato nemmeno un minuto per scambiare una parola”
“Tutto molto di corsa, ma perché?”
“Beh, dovevamo recuperare un po’ di tempo perduto, son dovuto andare in Turchia, penso tu lo sappia.”

“Sì, sì, Jorge. Lo so. Noi… noi eravamo lì.”
“In che senso?”, gli occhi di Jorge che la perforano, che cambiano il clima immediatamente.
“Io e Warren eravamo in Cappadocia, dove è successo… cioè abbiamo proprio assistito a quel momento.”

“Cosa? Perché eravate lì? Assistito a quel momento?”
“Sì. Non so se sai che io e Warren ci siamo lasciati e per lasciarci abbiamo deciso di chiudere i nostri dieci anni lì. Di comune accordo. Volevamo fare una cosa che non avevamo mai fatto e che avevamo progettato da tempo,”

“Il volo in Cappadocia?”
“Sì, esatto.”
“E?”
“E… eravamo a pochi metri di distanza quando c’è stato l’incidente.”
“Eravate in volo nello stesso momento?”
“Sì. E non ci siamo resi conto che fosse BluRose. Cioè, era la nostra istruttrice, prima di decollare ci avevamo anche parlato. Era nel nostro gruppo.”

A Jorge risalgono le lacrime e non fa nulla per mandarle indietro, si bagnano le gote mentre prova a chiedere ancora le uniche novità possibili su di lei:
“Che cosa vi aveva detto? Come stava?”
“Beh, ci ha dato le regole, ce le ha ricordate, insomma.”
“Era… era felice?”
“Sì, lo era. Era coinvolgente, come penso sia sempre stata.”
“Sì, sempre. Posso farti una domanda scema?”
“Certo, tutto quello che vuoi.”
“Come aveva i capelli? Erano legati? Sciolti?”
“Erano sciolti. Mi sembra mossi. Lunghi, ma questo… questo lo saprai.”

Jorge cerca di visualizzare disperatamente l’ultimo volo di BluRose, gli ultimi sguardi, le parole, quelle che ha perso, tutto quello che ha perso e che non sarà mai più nuovo.

“Grazie, Tessa.”
“Di cosa? Stai scherzando?”
“Ti sembrerà stupido ma ho proprio fame di parole da tutti quelli che l’hanno conosciuta, anche per un breve scambio che io non ho vissuto. E scusami se piango ma non potevo aspettarmi di ritrovare qui la persona che l’ha vista nel momento dell’incidente. Scusami davvero.”

Tessa lo abbraccia titubante e lui ricambia stringendola forte.
“Scusami”
“Jorge, scusami tu.”

Lui si allontana dal gruppo, cerca di non farsi vedere ma non è in condizione di parlare con Lena e Narciso, che sono nei pressi.

“Ciao ragazze, in bocca al lupo.”, agita la mano da qualche metro, entrambe sono ai ritocchi del trucco: Narciso è una Vanessa Bell conturbante ed ipnotica, Lena una Vita più bella delle fotografie, una versione rinascimentale di lei, meno avara e obliqua, più fragile.
Sta per lasciare il foyer e tornare in cabina di regia quando incappa in Warren:

“Ehi, Jorge.”
“Tu sei Warren, giusto? Warren Sartor, certo. Non ti riconoscevo, farai Duncan?”
“Sì, sono io. E, sì, farò Duncan”
“Stai benissimo.”
“Grazie.”
“E come stai? Scusa il gioco di parole”
“Mah… c’è di meglio in generale ma felice di essere qui.”
“Tessa mi ha raccontato. Mi dispiace, non sapevo.”
“Sì, sarà un po’ difficile ma siamo due professionisti. Non credo vi daremo noie.”
“Mi ha anche detto che eravate lì quando…”
“Sì, è assurdo, eravamo a un passo dalla mongolfiera.”

Jorge ha un nuovo singhiozzo, improvviso.

“Scusa, scusa”, Warren si avvicina, convinto di esser stato poco riservato.
“Scusami tu, Warren.”

Si abbracciano, Jorge lo cinge, Warren rimane rigido e comincia a soffocare le lacrime anch’egli. Poi ricambia l’abbraccio e gli copre le spalle con le braccia. Manda indietro il pianto ma l’emozione che gli sta passando Jorge lo sta devastando.
“Scusami se sto così. Non volevo mancare oggi ma forse non sono ancora nelle condizioni.”
“Lo capisco e non scusarti. Non devi proprio.”
“Fidel Risi, Narciso Torrisi, Michelle Monnati Blanchard, siete ancora qui? E’ il momento di raggiungere la sala Kursaal, abbiamo cinque minuti.” La voce di Malvina tuona ma con dolcezza nel foyer, inquadrando l’abbraccio alla fine tra Warren e Jorge, le lacrime, le facce scosse.

“Oh, scusatemi.”
“Malvina, di cosa? Michelle credo sia già di là.”, il sorriso calmo di Jorge.
“Eccomi”, sussurra Fidel.
“Ci sono anch’io” gli fa eco Narciso.
“Andiamo allora”

Fidel, nel passaggio dal teatro alla sala Kursaal, si rivolge a Narciso per la prima volta:

“Come si chiama quella sensazione che ti piega le ginocchia prima di cominciare una qualsiasi cosa di spettacolo?”
“Panico puro?”
“C’è un termine francese, mi pare.”
“Parli della trac?”
“Quella.”
“O stagefright.”
“Ecco, sì. Si può dire supertrac?”
“E’ quello che stai provando?”
“Sì qualcosa che ti blocca tutto lo spazio che c’è tra gola e stomaco e che porta dritti alla perdita di sensi. Tu vedo che stai bene”
“Sono contenta, sì. Per fare una cosa bella bisogna pur cominciarla.”

Fidel la guarda e non è per nulla rassicurato da tanta sicurezza, anzi, sente un’ennesima patente di estraneità, come un fuoco che non si accende come dovrebbe, un vuoto che non si colma, una paura che cresce e che non se ne va.

“Per di qua, facciamo prima, seguitemi. Siete bellissimi.”

Elvio Calderoni
Ho vissuto senza sport per i miei primi 40 anni. Adesso diciamo che sto recuperando, dato che ho un sacco di muscoli e fiato ancora nel cellophane. Cultore della parola detta e scritta, malato di cinema, di musica, di storie. Correnti, già corse e da correre.