Tobia alza lo sguardo e fugge a velocità disperata verso il centro, dalla parte opposta al rione Steinach e mentre scappa continua a dire a Martina Neva:
“Non ti alzare!”
Bengala decide di scendere, visto che la ragazza è immobile, corre verso il fiume corre corre a perdifiato e arriva in pochi istanti da lei:
“Ehi. Ma… sei tu?”
Lei finalmente si gira, si alza lentissima, come indolenzita, titubando, ha ancora nelle orecchie le minacce di Tobia, guarda Bengala negli occhi e si fa abbracciare, frastornata e, finalmente, in lacrime. Non parlano per almeno un minuto.
“Bengala Bassani, giusto?”
“Sì. Tu sei Martina. Martina Neva. Ma chi era? Chi era quello?”
“Non… lo so. Era tutto buio. Mi sembrava Spilimbergo. Tobia. Ma lui… lui ha detto che era Orlando, il fratello. Non lo so.”
“Non ti preoccupare. Ora sei al sicuro.”
Rimangono abbracciati per qualche secondo, lei continua a sfogare le emozioni piangendo e pensa a quanto sia stato facile subire una violenza, rapido, animalesco, indegno e si chiede perché l’abbia fatta cominciare senza opporsi: davvero pensava fosse Tobia Spilimbergo e questo le ha fatto pensare che un rapporto intimo con lui fosse qualcosa di conveniente?
Opportunismo? Effetto della fama? La fierezza al posto della vergogna? Si aggrappa alla solidità che le sta regalando Bengala come ad un appiglio e si fa paura per quel che ha pensato, prova una rabbia che viene da molto lontano, non sa cosa sarà di lei domani, sa che adesso ha meno paura di prima per la situazione e molta di più per sé stessa e per il mondo che ha sempre sognato.
Nello stesso istante, a Genova, Orlando Spilimbergo, proveniente da Bologna, accosta la macchina all’inizio del Ponte Morandi, scende portando con sé una busta di plastica dura con dei grandi sassi e un rotolo in cui è avvolto un lenzuolo lunghissimo.
Lo svolge coprendo quello di Dipinti in cerchi che aveva sostituito quello originale, col nome di Bengala al posto del suo, taglia i fermi che lo tenevano svolto, lo vede cadere giù, non sta passando nessuno, attacca il suo con varie pietre, di forme e peso diversi, sul bordo del ponte e sogghigna osservandolo da sopra: il suo corpo nudo è raffigurato al triplo delle dimensioni reali, in croce, con tanto di chiodi sulle mani e sui piedi, circondato da un ovale e una scritta sotto: meglio un uovo che un cerchio per un crocifisso di talento Orlando si guarda intorno, gli viene il singhiozzo, ancora non sta passando nessuno, è mosso da istinti diversi: ridere, urlare, piangere, buttarsi dal ponte.
Continua a singhiozzare e comincia a sentirsi sbagliato. Gli tornano indietro le sensazioni della Piccola Londra, i bengala sul volto di Bengala, l’aggressione a Tessa, quella crudeltà maldirezionata figlia della frustrazione. Si chiede se questa specie di sindone spiegata dal ponte Morandi non sia figlia di quel moto lì, se sia un finale di questa storia, se sia un atto patetico o qualcosa di coraggioso e di degno. Si guarda nello specchietto dopo esser risalito in auto, vede gli occhi fiammeggiare, il verde chiaro della sua natura contro il rosso doloroso degli eventi.
Riparte guidando verso l’autostrada convincendosi che abbia portato a termine un’azione giusta, dovuta, quasi necessaria.