Dipinti in cerchi – trentaduesima puntata

Warren sta per lasciare Genova dopo aver subito la predica di Domenico, il suo agente: la sua ritrosia nel fare dirette o semplici comunicazioni social lo ha fatto scendere in tendenze rispetto a tutti gli altri e adesso che non è più possibile comunicare direttamente con i fans è troppo tardi e bisognerà demandare il tutto a qualche profilo non ufficiale, mettere in mezzo altre persone, stare al limite tra quel che è consentito e quel che non lo è e che se bisogna farle così le cose tanto vale non farle affatto eccetera eccetera.
La valigia è pronta, scende veloce verso la strada, si gira verso la buca delle lettera, prende una busta tra le mani indirizzata a lui senza mittente, fa per aprire il portone e viene bloccato da una voce:
“Warren…”
“Margaret, mi hai spaventato, che stai facendo?”
La ragazza lo sta aspettando nell’androne, chissà da quanto.
“Ti ho spaventato? Tu mi stai atterrendo, invece. Sei sparito, sparito del tutto, mi stai costringendo a farti le poste sotto casa.”
“Vieni con me, ho il taxi sulla piazza, non posso perdere l’aereo. Vieni.”
“Stai andando a Merano?”
“Eh, certo. Cominciamo domani.”

Escono in strada, lui non riesce a guardarla negli occhi, l’ha spaventato, non ama essere voluto così tanto, essere amato in questo modo, non è quel che vuole, non adesso. Forse non l’ha mai voluto. Salgono sul taxi, lei ha il trucco colato, tensione mista a lacrime cacciate per la maggior parte indietro, l’incapacità di non saper da dove cominciare:
“Warren, non so chi dovrebbe parlare per primo, ma io devo capire perché ti ho perso. Perché ti ho perso proprio quando sembravamo aver vinto. Quando Margaret e Warren sembravano aver vinto sul resto, perché?”
“Vinto? Perso? Margaret… non è una partita. Ti ho già detto che è un momento in cui non posso prendere decisioni importanti. Ho Tessa nel programma e non se l’aspettava nessuno.”
“Ecco, ci risiamo, Tessa. Ma quando? Quando ce ne libereremo? Quando te ne libererai tu? Mai!!”
“Margaret, calmati. Ti prego, calmati. Non mi hai perso.”
“Non ti ho perso? E allora perché non mi hai più cercato? Perché non mi stai dando non dico più di prima, ma nemmeno la metà di quel che mi davi prima che la lasciassi. Nemmeno un quarto.”
“Non l’ho lasciata io, ci siamo lasciati entrambi. Non è semplice, non è istantaneo, ci sono cose che non sai.”
“E’ incinta?”
“Ma sei deficiente? Ma come cazzo parli? Che cazzo di pensieri fai?”
“Perché ti rivolgi così a me? Ma che cazzo ti ho fatto io per meritarmi questo?”, il tono che comincia ad alzarsi, si perde la misura, si accelera il ritmo delle parole sebbene siano spezzate dall’emozione.
“Dici cose insulse.”
“Fai i misteri, parlami, dimmi le cose come stanno.”
“Io non so davvero come…”
“Come?”
“Come ho fatto.”
“A far cosa?”

Lo sguardo va oltre il finestrino, il taxi e la pioggerella gli riporta al cuore la sera in cui tornò dalla Cappadocia con Tessa. Ha un moto di stizza, prova a chiudersi, vorrebbe sfogarsi.
“A far cosa?”
Margaret gli urla contro.
“A far cosa?”, glielo ripete avvicinandosi, la faccia vicina alla sua faccia. Lui, esasperato, la spinge contro il suo finestrino, la strattona, le dà uno schiaffo. Lei scoppia a piangere.
“Ci sono problemi?” il tassista dallo specchietto.
“Tenga i soldi e mi faccia scendere. La valigia la prendo da solo, tanto con questo cazzo di traffico finisce anche che perdo l’aereo. Prendo la navetta dalla stazione. Porti la signorina dove vuole lei. Arrivederci.”

Mentre scende, l’eco dei singhiozzi di Margaret gli pulsa nelle orecchie, la vede battere i pugni sul finestrino disperata, la pioggia sale di intensità, Warren sta odiando questo momento, odia lei, odia sé stesso.

Jorge rimane nella stanza d’albergo ad aspettare l’arrivo del file dei primissimi minuti del video, ha il fiato corto, lo assale una mistura di sensazioni controverse, diverse tra loro per intensità e per difficoltà, altrettanto difficile distinguerle, dargli un nome, conviverci, sia pure per qualche istante. Si sdraia sul letto rimanendo con la giacca e le scarpe, con le bretelle, una mano sulla barba, l’altra a coprirsi gli occhi. Finchè arriva il messaggio di Davide: “Ce l’hai!”

Si alza e passa dal letto alla scrivania, torna sul drive e apre il nuovo allegato, leggerissimo. La durata è di 50 secondi, pensava di più. Inizia a guardare: c’è la carrellata verticale dalla luna verso la terra, un cielo di un blu che sembra lavorato, tersissimo. La donna di spalle appare subito, in alto a sinistra, alla sommità della scalinata, Jorge alza il volume al massimo e ode distintamente la voce di lei :
…mi son messa la gonna di quando ci siamo conosciuti. Mi sta larga, son dimagrita. Sarà l’amore…

Subito dopo la donna scompare, uscendo dall’inquadratura a sinistra, raggiungendo l’interlocutore nascosto, coperto dal primo albero della siepe laterale di faggi. Negli ultimi dieci secondi se ne sente solo la voce:
… e scusa se son piombata qui così ma non mi era piaciuta proprio come era finita ieri…

Poi una voce maschile, off:
…vai che è pieno di telefoni e telecamere… scendi da qui…
Jorge ritorna indietro col cursore due volte, cinque, dieci. Arriva a venti. Gli occhi non vedono più lo schermo perché si riempiono di lacrime, le orecchie provano a non riconoscere come certa la voce di BluRose ma ogni volta che riascolta le parole, la sensazione è sempre più netta. E’ lei. Cerca di riflettere, di calmarsi, di trovare delle falle, dei segnali. Si ributta sul letto dopo aver chiuso il computer, come a cacciare una certezza dall’orizzonte visivo e uditivo, se non da quello emotivo.

Come può essere? Il nostro era un amore nuovo. Rinnovato ogni giorno. Con le attenzioni, le sorprese, le bellezze, le cure. Con tutto quel che serve per essere centrali, per sentirsi tali e per far sentire l’altro altrettanto al centro. Nessuna traccia di stanchezza, BluRose. Non può essere così.

La gonna di quando ci siamo conosciuti.
No, avevi un abito lungo. Una festa a Cagliari. Un abito bianco, sembravi una sposa, Non avevi quella gonna blu. L’ho sempre pensato che sembravi una sposa, che eri pronta a sposarmi il primo giorno che mi hai incontrato, non avevi quella gonna blu. Una gonna brutta, non era fatta per te, ti stava male.

E non è vero che eri dimagrita. Dimagrita da quando?
Forse ti sei sbagliata? Ma non parlavi con me, non parlavi di me quando hai detto “sarà l’amore”? Ma come puoi non parlare di me? Certo che parlavi di me.
Non ti era piaciuta come era finita ieri. Finita ieri cosa? Cosa non ti era piaciuto?
E lui? Perché lui si è affrettato a dire che c’erano i telefoni, c’erano le telecamere, che era meglio scendere da un’altra parte?

Qualcuno ti ha costretto, BluRose, a tradirmi? Dove ho sbagliato? Quanto ho sbagliato? Quanto hai sbagliato tu? Chi era lui? Da quando esisteva? Chi era? Chi era? Chi era? Perché era lì quel giorno? Perché sei piombata da lui proprio lì, a sorpresa, quando la sorpresa pensavo l’avessi fatta a me? Così avevi detto ed eri così sincera nel dirlo, cercavi parole nuove, parole adatte, la battuta iniziale, il “passavo di qui per caso così si dice”, i dubbi sugli aggettivi e sui participi. Puoi esserti spinta così oltre a giocare con la verità e la menzogna? Con me?

Ha l’istinto di tornare immediatamente a Genova a sbloccare il cellulare di BluRose e a prendersi la responsabilità di guardare in faccia l’interezza della verità, l’interezza di Blu, l’interezza della loro storia d’amore.

Si guarda allo specchio, il volto deformato. Si tocca la barba come ad avere una patente di esistenza se non di bellezza e di amore. Se la tira, si fa male, non riesce a capire il colore del dolore in questo momento, sente che il cuore fa male più della barba tirata, vede gli occhi rendersi liquidi, l’effetto del dolore sul volto, sulle mani, sul corpo. Gli sembra inutile il sorriso bellissimo che ha nascosto da qualche parte, insieme alla felicità. Gli sembra spento il verde degli occhi, il magnetismo che è sempre partito da lì. Li chiude, sbatte le palpebre, li riapre. Prende il computer, riapre il file, la donna di spalle, la gonna blu, sente di nuovo la voce, le frasi di lei, la risposta di lui. Gli basta. Chiude il pc e lo lancia contro lo specchio, crepandolo all’altezza della sua faccia. Gli sembra che l’unico a crepare sia lui. A spezzarsi. Ad andare in pezzi, in cristalli liquidi come uno schermo, senza margini, impossibile da rimettere in forma.

Elvio Calderoni
Ho vissuto senza sport per i miei primi 40 anni. Adesso diciamo che sto recuperando, dato che ho un sacco di muscoli e fiato ancora nel cellophane. Cultore della parola detta e scritta, malato di cinema, di musica, di storie. Correnti, già corse e da correre.