Michelle non rilascia interviste da dieci anni. Ha fatto della sottrazione la cifra del suo divismo. Nessuna apparizione televisiva, nessun social seguito direttamente da sé stessa, foto col contagocce. Distanza distanza distanza. E lunghi periodi privi di qualsiasi notizia. Nessuna smania di lavorare se non in progetti creati ad hoc. Ma per contratto quest’intervista va fatta. Fa parte del pacchetto “Dipinti in cerchi” e le eviterà dichiarazioni da fare sui social ai fans e agli haters. Si è vestita di bianco, un cappello a falde larghe, gli occhiali da sole, uno scaldacollo beige. Appare nel salone come una dea, solenne e lenta. La giornalista ha fama di essere intelligente e spinosa, ma sembra sia stata ammorbidita dalla produzione, pagata da una sinergia tra il suo giornale e la società di “Dipinti in cerchi”.
- Buongiorno Bianca.
- Buongiorno Michelle.
- Prende un caffè? Un thè?
- No, grazie. Sono a posto.
- Mi siedo qui di fronte a lei.
- Va benissimo.
- Non sono molto abituata a concedere interviste.
- Infatti la ringrazio. E’ un onore. Ho studiato, l’ultima è datata 2012. Vanity Fair.
- Sì, purtroppo.
- So che non è finita bene.
- Eh, no, una querela necessaria. Il giornalista inventò di sana pianta quasi tutte le risposte. Stette qui, ah no, vivevo a Milano all’epoca. Insomma, lo ricevetti per circa due ore. Andammo lunghi, ecco. E il risultato fu un’invenzione. Totale.
- Io scrivo solo quel che esce dalle sue labbra.
- Mi conforta.
- Allora, cominciamo?
- Prego
- Iniziamo da quel che non c’è. Il suo profilo social non contiene nemmeno una parola su “Dipinti in cerchi”. Voluto? Sottrazione? Divismo per sottrazione, come dicono tutti, quando si riferiscono a lei?
- Il mio profilo social non contiene una parola su nulla. Avrà notato. Non lo curo personalmente. Ho accordato con la società che proprio quest’intervista avrebbe sostituito qualsiasi dichiarazione.
- Certo, ne sono al corrente.
- Ecco
Il ritmo delle parole di Michelle è lento, soppesato, distante come da un’altra era. Le domande di Bianca Molino sono accompagnate da un sorriso cordiale di provenienza dubbia, poco rassicurante.
- Lei non me lo chiede ma i social, ci tengo a dirlo io, non mi appartengono. Un po’ per età, probabilmente, ma sicuramente nemmeno per attitudine. Una cosa a cui non mi abituerò mai.
- Il video che sta circolando da ieri è primo in tutte le classifiche nelle visual di ieri. Lei appare solo alla fine, sembra un’intervista che non ho saputo riconoscere, non ricordo l’occasione.
- Non è una vera intervista. Ho messo a disposizione della produzione dei materiali privati. Questo fa capire quanto tenga al progetto.
- E perché non era lì il giorno dei secondi provini alla Scalinata delle Caravelle a Genova?
- Davvero mi sta facendo questa domanda?
- Andrebbe spiegato, se ne ha la generosità.
- Non c’ero io, come non c’era Tobia Spilimbergo. Francamente mettermi in una masnada di ragazzini sconosciuti a provare camminate su e giù per le scale non mi sembrava adeguato.
- Beh, è quel che sta per fare. Entrare in un posto, a proposito ancora segreto?, con una masnada di ragazzini sconosciuti. Sbaglio?
- Il posto non lo so nemmeno io ma se lo sapessi non potrei proprio dirglielo. La masnada è la stessa e rispetto le scelte della società ma in quel caso siamo chiamati ad interpretare un ruolo, a spingere il confine tra realtà e finzione fin dove non è mai stato spinto. Ad entrare in un cerchio, appunto. Ad essere noi e ad essere un altro.
- Questo accade da sempre. Da quando esiste il teatro, sbaglio?
- È una cosa diversa. Qui siamo chiamati ad un’identificazione diversa e prolungata. Una sfida di concentrazione, c’è da perderci il senno.
- E’ pronta, quindi, a incarnare Virginia Woolf?
- Da decenni. Studio l’opera e il pensiero della Woolf da sempre. Credo di saperne più io di una qualsiasi professoressa di letteratura inglese. Universitaria, intendo.
- Anche su quelli di Bloomsbury?
- E’ proprio quel concetto di arte democratica che me l’ha fatta scoprire. Che mi ha avvicinato a lei. Ancor prima che le sue opere. Trovo straordinario proprio il clima così stimolante che si respirava e che trasuda da tutto quel che è stato prodotto in quelle case e a quei tempi. Qualcosa di elettrizzante. Di elettrico, proprio.
- La parola democratico non mi sembra le sia mai appartenuta.
- E perché no?
- Perché non ha mai fatto mistero della provenienza alto borghese dei Monnati Blanchard. Ricchezza da quando era in fasce. A proposito, è nata nel ’75 o nel ’69?
- Nel settembre del 1975. Nascere ricchi non è una scortesia e non c’entra molto con l’idea di democrazia che si può possedere. In me è un’inclinazione naturale, non potrei fare a meno di essere democratica.
- Insisto sul ’69. Lei, negli anni ’80, in un paio di occasioni disse che sì, era settembre, ma del 1969. E che non era nata a Verona ma in un santuario. Che verità c’è dietro?
Michelle tace. Potrebbe urlare, stare zitta un secolo, scoppiare a piangere.
- Non c’è nemmeno un brandello di verità. Non mi fanno questa domanda così stupida da almeno quarant’anni quando fare illazioni sulla mia età era uno sport diffuso. Che si è dissolto insieme a quel decennio insulso. Gli anni ’90, appunto. Ed io ero una bambina davvero, tra l’altro.
- Perché è diventata rossa?
- La rabbia. Gliel’ho detto, è una domanda stupida.
- Ne ho un’altra. Forse ancora più stupida.
- Dubito possa superare questa, ma, prego.
- C’è stato un momento in cui all’apice del successo, siamo nel 1998, lei ha mollato il set di un film in costume su Artemisia Gentileschi a cui teneva moltissimo. Si ricorda?
- Beh, no, erano dei provini in costume. Non ho mollato nessun set.
- Provini con tutta la troupe? Mah, strano. E la cosa stranissima è che il suo allontanarsi fu da un giorno all’altro, poi infatti fu sostituita da Dalila Rebecchi, peraltro con esiti disastrosi. E questo allontanamento durò circa 8 mesi. 8 lunghi mesi all’apice del successo.
- Ebbene?
- Ebbene, gli stessi malpensanti che la vorrebbero nata nel ’69 affermano che lei in quei mesi abbia messo al mondo un bambino. Follia?
Lo stesso silenzio di prima. Dieci volte più rumoroso, scricchiolante. Il rumore delle vene che battono sotto la pelle. Il sangue che le irrora. Michelle chiude gli occhi e vede il sangue che scorre. Il suo.
- Mi perdoni un minuto.
Lo sguardo di entrambe è fermo, arido. Michelle lascia il salone, va in camera da letto, chiude tutte le porte in mezzo, prende il telefono e manda un messaggio vocale a Jorge:
- Ma chi mi avete mandato? Volete che mandi all’aria tutto? Chi è questa stronza che sta tirando fuori la merda e la sta spalmando nella mia casa? Chi cazzo mi avete mandato?
Subito dopo scrive un messaggio al suo agente ordinandogli di parlare con il direttore del giornale della Molino. Tre parole.
Il ritorno in salone è altrettanto veloce.
- Adesso Maxwell la accompagnerà gentilmente fuori. Non voglio più vedere nella mia vita la sua faccia di merda né sentire leggere nemmeno fosse su una porta di un cesso il suo nome. Mai più.
- E a cosa devo questa cortese ospitalità?
- Maxwell!
Ha alzato il tono per la prima volta da quando è cominciata l’intervista. Il volume non era così alto nel messaggio a Jorge, forse per un po’ di comprensione del momento. Sulla soglia d’entrata al salone compare un atletico giovane in uniforme da maggiordomo.
- Non pensavo esistessero ancora i maggiordomi. In casa di una democratica, poi.
- Accompagna gentilmente questa donna alla porta e a riprendere la sua vita. Grazie.
- Beh, grazie a lei. Pubblicherò quel poco che ho e che so.
- Lo faccia. Vedremo il piacere che le darà.
- Senz’altro. Le mando un messaggio quando sarà pronta?
- L’ho già bloccata. Arrivederci.
- Il modo per farglielo sapere lo trovo comunque. E in bocca al lupo per il progetto!
Bianca Molino, mentre lascia il salone, stringe la mano a Maxwell complimentandosi, soddisfatta e tutt’altro che oltraggiata.