Dello smart working e di tutto quello che non abbiamo capito

“Ne usciremo migliori” un par de cazzi. La gente è nervosa, frustrata e incattivita come sempre. Che esca o che non esca, che lavori da casa o che vada in ufficio. Proprio a tal proposito in questo periodo ho riflettuto molto sul concetto di “qualità di vita”.

Questo periodo di “smart working” mi ha fatto realizzare una cosa molto semplice: quanto sia fottutamente stupido che l’umanità tutta si sia costretta per decenni ad andare in ufficio ogni giorno, per otto ore, nella stessa fascia oraria, per tutta la vita lavorativa. E non sto facendo un discorso anticapitalista alla Fight Club.

È stupido in senso letterale, ottuso, non funzionale, inefficiente.

In primo luogo perché siamo esseri totalmente diversi. Ci sono mattinieri e nottambuli, c’è chi rende di più dalle 8 alle 10 e chi dalle 18 alle 20, chi pranza al volo perché preferisce non staccare, chi ha bisogno di dieci pause da sei minuti e chi di una da sessanta.

C’è chi abita a 300 metri dall’ufficio e chi per raggiungerlo ci mette un’ora prendendo l’auto, due tram e tre metro, c’è chi rimane fino a tardi perché si intestardisce su qualcosa che non torna e chi ragiona meglio il giorno dopo a mente fresca.

C’è chi inizierebbe all’alba e chi finirebbe a mezzanotte, chi “il weekend è sacro” e chi potendo renderebbe festivo il lunedì. C’è chi ha famiglia, chi ha figli e chi non ingrana una storia dall’85, chi chiude il pc e si spara l’aperitivo in Brera e chi va via di fretta perché se perde la coincidenza rischia lo stupro a Rogoredo.

In secondo luogo perché i giorni dell’anno non sono tutti uguali. Ci sono periodi in cui otto ore non basterebbero nemmeno se ti duplicassi per gemmazione, come ci sono periodi in cui riesci persino a portarti avanti con qualche scadenza e in sei-sette ore effettive te la cavi.

Ci sono giorni in cui hai riunioni, incontri e lavori in team, come ci sono giorni in cui sei totalmente autonomo e anzi meno ti rompono i coglioni e prima finisci. Ci sono periodi in cui il sole splende, l’oroscopo ti arride e tutto funziona, ci sono periodi in cui diluvia per settimane, hai saturno contro e problemi personali più o meno risolvibili.

Ora, chiedo: com’è razionalmente possibile ingabbiare inclinazioni, tempistiche, necessità, esigenze personali e professionali tanto eterogenee, per non dire diametralmente opposte, in un unico grande schema standardizzato, senza tenere minimamente in conto l’impatto incredibilmente diverso che questo ha sulla vita di ciascun essere umano?

Al di là di inutili sentimentalismi, come si fa a non rendersi conto che non sia per nulla efficiente?

A non capire che è tutto un grande circolo pseudo-virtuoso, in cui il lavoro influenza enormemente la qualità di vita di una persona e in cui la qualità di vita di una persona incide enormemente sulla sua resa professionale?

Avete presente in quanti e quali modi un individuo potrebbe arricchire le proprie giornate, dedicando tempo a se stesso, a un genitore, un amico, un cane, un fidanzato, una pianta, un figlio, uno sconosciuto, Netflix, imparando cose nuove o semplicemente rilassandosi, coltivando interessi – aulici o beceri che siano – che le ricordino che non è solo ciò per cui viene pagata il 27 del mese, che non tutto il suo tempo è definito da altri, che non è un marine del sergente Hartman né un triste stampo nella Golconda di Magritte?

Dico tutto questo perché questo periodo, su di me, ha avuto un forte impatto migliorativo: leggo tanto, mi tengo informata su temi di attualità, economia e politica che altrimenti non avrei tempo di approfondire, dormo un’ora e mezza in più, faccio tutti i giorni un po’ di attività fisica, sto approcciando lo yoga, imparando a suonare il pianoforte, riscoprendo la cinematografia italiana.

Cucinare no, cucina sempre lui che è molto più bravo. E dirò qualcosa di impopolare: l’idea di tornare alla vita di prima un po’ mi mette tristezza, perché quasi certamente non potrò più fare tutto quello che in questo periodo ho scoperto di voler fare. E che mi sta facendo bene.

Temo che nemmeno l’aver dimostrato di poter lavorare “smart” durante una pandemia mondiale sia sufficiente a sbloccare la mentalità molto italiana e molto anni ’70 secondo cui 40 ore sono il prodotto soltanto di 8×5 e l’autonoma gestione del carico di lavoro equivale a cazzeggio incontrollato. Temo.

Quindi no, non ne usciremo migliori. Soprattutto perché, come in una relazione finita male, di questo periodo ricorderemo tutto, tranne ciò che ci ha insegnato.

Federica Colli Vignarelli

 

Federica Colli Vignarelli