Cristiano è rientrato nell’incubo in cui sembrava impossibile ritornare. Georgia Joanna che non risponde più, che chiede di lasciarla andare bene, che opta – perché, Santo Dio, è inutile che si travestano le scelte da necessità – per chiudere di nuovo subito dopo aver toccato una vetta di intensità consapevole, col cuore che andava per conto suo, con la testa che pulsa e martella il nome dell’altro, il concetto dell’altro.
E sa che non lo sta provando solo lui, sa che non ha senso nemmeno per lei rinunciare a una felicità tale, ad ammantare di proibito vietato non concesso una tensione talmente naturale che dovrebbero provarla tutti almeno una volta nella vita e continuativamente e sempre più spesso e sempre più consapevoli che è unica, che è un diritto, che confina con la stessa identità.
Mentre si avvicina a Sanremo, la strada obbliga una deviazione a Bussana a causa di un incidente. Si ferma, attirato dalla sommità della collina. Vuole procrastinare l’incontro con Victoria, sente che per quel che sente adesso le direbbe tutto. Che la lascerebbe e sa perfettamente che non sarebbe la cosa giusta per nessuno. Comincia a salire, sente che vuole rimandare, vorrebbe fare il turista, mandare cento foto al suo amore, il tramonto tra le nuvole rosa sopra la chiesa aperta di Sant’Egidio è un sogno che gli arriva all’improvviso.
Una chiesa lacerata, senza il tetto, che ogni giorno mette in scena il cielo come anticipazione del paradiso per tutti i fedeli che si assembrano tra i banchi di questo posto.
“Ma qui non si può mica entrare, come ha fatto?” il sogno interrotto da una signora con un cappello bianco, sulla sessantina.
“Non lo so, sembra strano ma non lo so, non ho trovato ostacoli”
“Eh, ostacoli no, ma se i cartelli di divieto per lei non sono ostacoli…deve uscire e anche subito, io ci vado di mezzo.”
“Lei custodisce?”
“Sì, diciamo.”
“E perché non c’è il tetto?”
“Secondo lei?”
Lo guarda, incuriosita, ha uno sguardo azzurro che sembra fatto apposta per incontrarsi con il cielo svelato dal tetto aperto, contornato dalle rughe esattamente come il cielo è contornato dalle rovine della chiesa.
“Un sisma?”
“Sì. Molto tempo fa. Il Novecento ancora non era cominciato.”
“Ed è venuto giù il tetto?”
“Beh, è venuto giù tutto il paese. Era il primo giorno della quaresima. Sono vecchia ma non così tanto, eh, me l’hanno raccontato.”
“Sì, beh, immagino.”
Perché Georgia Joanna non è qui con me ad ascoltare questa storia?
“C’era un vento lievissimo, primaverile, ma all’improvviso il vento salì, veloce, spaventosamente veloce, di punto in bianco.”
Georgia, quale treno stiamo perdendo?
“Tutto ha cominciato a traballare, ad ondeggiare, muri che cadono, alberi che crollano, ponti che cessano di esistere…”
Georgia, quale treno stiamo perdendo di nuovo dopo averlo ripreso?
“Gente che gridava e scappava ovunque…”
Georgia, l’avevamo ripreso. Ci eravamo seduti, stavolta. Avevamo cominciato a guardare il panorama abbracciati.
“Ma le grida furono spazzate via da un rimbombo spaventoso, che coprì tutto il resto…”
“La volta che cadeva?”
“Esatto. E con la chiesa piena per le ceneri. Il parroco gridò e la gente si rifugiò ai lati della chiesa, sotto le cappelle laterali. Si immagini la gente che assiste a questo crollo. Tutto nel buio più completo. Col cielo cupo, mica come questo azzurro rosato.”
“Che è bellissimo.”
“Come mai è qui a Bussana? Artista anche lei?”
“No, sto andando a Sanremo. Mia moglie è in concorso, canta.”
“Ah, complimenti. Lei ha lo sguardo molto innamorato. Scommetto che la porterà qui appena potrà. O che almeno sarà stato per lei che ha scattato quelle foto che non poteva scattare…”
“Ah, beh, certo…”
“Mi sta simpatico e la perdono, ma adesso usciamo, la prego.”
“Certo, certo. Posso un ultimo scatto?”
“ Va bene, ma la prego, non lo pubblichi, davvero.”
“No, giuro di no.”
Va sulla chat di Whatsapp di Georgia Joanna e scatta direttamente da lì.
Didascalia: mi sento come questa chiesa col tetto crollato ma senza questo cielo rosato che lo sostituisce. Ti amo e mi manchi come può mancare un respiro dopo cinque minuti di apnea.
Georgia Joanna guarda lo schermo, osserva la foto, impara a memoria le parole appena le legge. Capisce che si tratta di un momento indimenticabile e mai più nessun uomo sarà così sincero con lei, così intero. Così suo. Piange con la fronte attaccata alla porta bianca della sua camera da letto, è distrutta, piena di stanchezza, sente le vene che sono invase da questo sentimento, le intaccano, le appesantiscono, la spingono verso il pavimento. Si piega sulle gambe, sempre con la fronte attaccata alla porta, finisce accosciata e comincia a singhiozzare. Prende il cellulare in mano, ingrandisce la foto, tocca lo schermo, singhiozzando continua a ripetere due parole, a volume sempre più alto:
Ho paura.
Ho paura.
Ho paura.
Ho paura di noi.
Chiude e apre la chat tre volte. Spinge sull’icona del microfono, poi cancella, di nuovo spinge, cancella di nuovo. Poi si decide:
Ho paura… ( piange, i singhiozzi impediscono la piena intellegibilità delle parole ), ho paura, non volevo più che mi scrivessi, non voglio. Non lo voglio. Ma io sono in apnea da dieci minuti. Il cielo è bellissimo. Tu sei bellissimo e non devi crollare come quel tetto. Ti amo anch’io.
Elvio Calderoni