Torniamo davanti al cancello di Villa Invernizzi, i fenicotteri in giardino, Georgia Joanna e Irene una di fronte all’altra. E cinque minuti di silenzio nel quadrilatero del silenzio.
Irene non riesce ad esser del tutto spaventata, l’incertezza dell’altra la rassicura e le suona familiare, come se si sentisse inattaccabile. Allo stesso tempo, sebbene la simpatia non sia svanita, la sgradevolezza dell’ìmpatto non svanisce.
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- E quindi ti stiamo cercando da…
- Non so da quanto ti sto cercando io, invece.
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Georgia Joanna sente due mani sulle spalle, si gira e il campo visivo è invaso dal volto di Cristiano.
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- Potevo ritrovarti solo qui, in effetti.
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Georgia Joanna cerca di non farlo, cerca di non mandare il cuore nella gola, di non farselo battere tra le vene del collo, di non cedere all’evidenza di uno stato alterato, di non credere che gli occhi che ha appena incrociato sembrano, così stupidamente, appartenere all’eternità.
Del momento ma anche della sua vita. Irene non ha mai amato le sorprese e nemmeno i colpi di scena, guarda la scena come fosse al rallentatore ed è invasa da un moto di imbarazzo per l’intimità di questo silenzio. Il silenzio turbato di Georgia Joanna, quello felice come un bambino di Cristiano e il suo, che le sembra il peggiore, il più banale, di timidezza e di intromissione.
Fissa prima i fenicotteri un ultimo istante e poi si allontana verso Palazzo Fidia, la curiosità di capire è frenata da un momento che sembra troppo da incantesimo per gli altri due.
Georgia Joanna deglutisce ed è immobile, la gola batte, l’anima vola, i piedi sono per terra ma i pensieri sono azzerati dall’incrocio con gli occhi di Cristiano.
Un verde divorante, che diventa sempre più chiaro ad ogni momento, sebbene entrambi siano fermi. Lui eternerebbe il momento per quanto ha voluto, nelle ultime ore, che gli son sembrate le più vere e più strazianti della sua vita, rivederla.
E quindi tace, ha paura di sbagliare ancora, non è pronto a nessuna mossa, sta pensando a come ha fatto in tempo, con la coda del cuore, a capire che la figura che da lontano le sembrava lei fosse davvero lei, a tornare da casa sua correndo dopo aver salutato Victoria, correre come non ha mai fatto davvero, correre e se c’è un modo di correre verso la vita, l’ha capito nel percorso dal portone di Piazza Duse al cancello di Villa Invernizzi, è proprio e solo questo.
Non ha mai corso per Victoria. Non ha mai corso per Adele, o per Teresa, o per come si chiamava quell’altra? Per Chiara. Si sente banale e piccolo e stupido mentre sta zitto e non trova nemmeno il respiro giusto per balbettare come se la vita l’avesse improvvisamente invaso e portato in un capitolo che non poteva nemmeno aspettare.
Georgia Joanna si sente altrettanto stupida, ha bucato ogni intento, avrà fatto una figura pessima con Irene su cui si era riuscita a concentrare e tutto improvvisamente frana, svanisce, si sfibra. Mentre dentro tutto infuoca l’aria – che giorno è che clima c’è avrò già mangiato? – e l’emozione cambia la prospettiva, dilata il tempo e annulla lo spazio.
Fermi, continuano a stare incredibilmente fermi, quanto sarà passato?
Se qualcuno passasse penserebbe ad una scena provata mille volte da due attori, ad una fotografia ricreata davanti al cancello della villa con i fenicotteri rosa sullo sfondo, ad una posa o ad un’installazione. E’ assai probabile che non abbiano mosso un muscolo per almeno 120 secondi.
Perdono quasi ogni corporeità ed ogni appartenenza al genere.
Cristiano dovrebbe abbracciarla e dirle che non si perderanno mai più, cingerla con vigore e farla sentire protetta da tutti i fantasmi del dubbio, della colpa, del tradimento, della menzogna. Non lo fa.
Georgia Joanna dovrebbe confermare la sua ritirata, girarsi e lasciarlo lì, davanti al cancello, a confermare quel che ha messo in campo, a fatica ma con convinzione crescente, nelle ultime ore. Non lo fa.
E la forza di un pensiero ce l’ha, riesce a tirarla fuori dallo stato sospeso ed incantato da cui è stata avvolta da quando si è girata verso di lui: che cosa mi impedisce di farlo? Un pensiero che è una domanda a sé stessa.
Lo sto facendo per gli occhi?
Lo sto facendo per il profumo?
Lo sto facendo perché ha l’aria di uno che non ha fatto altro che cercarmi negli ultimi giorni ?
Lo sto facendo perché ha l’aria di uno che non ha fatto altro che cercarmi da sempre?
Lo sto facendo, o meglio non lo sto facendo, perché ho deciso che voglio avere la storia più bella del mondo con lui?
Perché non lo faccio davvero? Perché non me ne vado e metto il mondo tra me e lui?
Perché siamo così stupidi e così adulti tutti e due da pensare che esista un’eternità improvvisa ed imprevista che spazza via tutto in un istante.
Non è spaventoso?
Non è irrazionalmente malefico? Portatore di sventura, addirittura?
Anche Cristiano, dopo almeno 180 secondi, comincia a realizzare il primo pensiero compiuto: io non voglio perderla mai più perché è stato come perdere l’aria, una mano, o vincere un tetto che crolla addosso, vincere una disgrazia, un’infamia, una collana di bugie inventate come in una congiura contro di lui.
Questo è tutto quello che ho dentro e adesso lo vedo e riesco a percepirlo lontano da me, non più dentro e non posso dirlo, non posso dirlo davvero perché potrei sbagliare ancora, potrei tornarci dentro e un’altra volta no, un’altra volta questa serie di sensazioni che bruciano, che sono una ferita senza sangue ma percepita dalle ossa e dalla pelle, dai muscoli, dai tendini, dalle vene, questo no. Mai più.
E riescono a farla una cosa, stando immobili. No, non parlano, la paura che paralizza, la voglia di non banalizzare. Ma piangono. All’unisono, eppure senza muovere un passo, un braccio, un occhio che batte per le lacrime.
Nulla. Due righe di fiume che scendono dagli estremi degli occhi verso le guance e battono, si direbbe che facciano rumore riecheggiando in tutto il quartiere, dove il silenzio adesso è davvero assoluto, rumore rumore rumore raggiungendo l’asfalto. E un modo migliore per dirsi ti amo non potevano davvero trovarlo nemmeno volendo.
Elvio Calderoni