Georgia Joanna si chiede se Irene sia capace di suonare uno strumento, se parla piano, sì, certamente parla piano, volume basso, forse una cantilena, forse una melodia, ma certamente senza fragore, visualizza la voce di Irene con delle goccioline azzurre, corpuscoli d’anima che portano il suo pensiero nel mondo.
Si scatta una foto e posa il cellulare accanto al computer per affiancare i due ritratti, il suo e quello di Irene. Il nerissimo di lei contro il biancore dell’altra. E perché contro? Perché non insieme, perché non con?
Irene scende in strada e si sofferma davanti al portone di Palazzo Berri Meregalli.
Ha letto stamattina che nell’androne c’è una vittoria alata e che l’autore è lo stesso, Adolf Wildt, che ha costruito, in via Serbelloni, quell’enorme citofono a forma di orecchio.
Da fuori cerca di scrutare l’interno ma intanto è attratta dalla facciata che mescola con bizzarria assoluta elementi gotici ad altri romanici in un contesto che definirebbe liberty.
Si mette nelle orecchie il brano di Kashiwa Daisuke che la mette in connessione diretta col cielo, con le nubi, con le stelle, con la luce e con il buio e che ascolta ogni giorno da quando Alessandro non è più su questa terra in carne ossa parole e movimento.
Sente una pace improvvisa, un unisono perfetto tra il cielo e la musica e i palazzi. Si ritrova a scrutare con curiosità ancestrale questo interno, osa entrarvi per la distrazione di un residente che ha lasciato socchiuso il portone. Entra e si aspetta un portiere che forse non c’è forse è in ritardo forse è a riposo forse è malato.
Si avvicina alla Vittoria Alata, non più da fuori, non più a spiare, non più a distanza, come la prima volta che entrò a vedere il Cenacolo a Milano. Un incedere esplosivo, lentissimo, che assaporava momento per momento quell’avvicinamento impossibile da fermare. Una sfilata al rallentatore. Un’eleganza da fotografare il suo avvicinarsi alla scultura. Non c’è nessuno e nessun rumore può esser percepito da Irene, rapita da quel che sta ascoltando e da quel che sta provando nell’avvicinarsi alla grande scultura.
E’ grande davvero, sembrava meno imponente da lontano e la Vittoria le racconta di un mondo remoto eppure possibile da toccare, composto di arte e di eternità, in cui gli esseri solo umani sono sviliti per propria natura, con i loro affari stupidi, le banalità del cuore, i discorsi vuoti e contingenti, la difficoltà del quotidiano, il nulla di fronte al tutto.
Il nulla.
Irene tocca la Vittoria Alata. Le note di Daisuke, è appena cominciata Stella, la sostengono.
Tomaso attraversa l’androne guardandola non visto. Attirato immediatamente dal tocco di quella mano bianca quasi quanto la scultura. La qualità del tatto, il rimanere nel buio e nel lontano per improvviso pudore di fronte alla bellezza. La sicura mancanza di paura di un’estranea nel suo palazzo. Mista alla curiosità.
Irene, agli occhi di Tomaso, sembra un quadro nella scultura. Una donna che sembra toccare per la prima volta un’opera d’arte. La prima donna, il primo tocco, il primo incontro.
Se solo si voltasse appena un po’. Non troppo che potrebbe vedermi.
Appena un po’.
Invece no.
Irene rimane di spalle.
Molto simile alla foto che Georgia Joanna sta continuando a guardare. Con un misto di invidia, di ammirazione, di lontananza e di vicinanza.
A Tomaso cade il cellulare, un boato nel silenzio totale dell’atrio. Trema quasi certo che stia per esser scoperto.
Irene non si accorge, ha la musica al massimo.
Lui, dopo questo non evento, Irene che non si gira, Irene che non si accorge, sorride, quasi ride, fa anche rumore, qualche passo verso di lei, poi un ritorno indietro, perché, d’accordo, non sente, ma potrebbe girarsi e lui non vuole assolutamente. Vorrebbe certamente guardarla, ma non vuole esser guardato. Proprio come un quadro che non ti guarda ma che è guardato infinite volte.
Noi la parte attiva.
Noi il fulcro dell’azione.
Noi comuni mortali che ci illudiamo che l’arte guardata, l’arte toccata, l’arte consumata sia roba passiva.
Tomaso che non ha visto nulla di più attivo negli ultimi tempi come le mani di Irene sulla Vittoria Alata. Ha come un capogiro improvviso, deve tenersi al muro che porta su alle scale, gli ricade il cellulare, stavolta Irene si gira e lui corre verso il primo piano senza guardar giù.
La vergogna e la fuga.
Irene che blocca il momento e frettolosamente – una sfilata accelerata stavolta – raggiunge il portone ed esce in strada rompendo il silenzio del quadrilatero del silenzio nel frastuono del cuore e delle note.
Elvio Calderoni