Stefano Ruzza e il suo dialogo con la fatica

Il mio rapporto con la fatica è sempre stato particolare. Sin da bambino mi piaceva fare sport, così come mi piaceva seguirlo in tv.

Seguivo un po’ di tutto, e calcio a parte, erano proprio gli sport di resistenza e fatica quelli che più mi affascinavano, dal ciclismo alla marcia, fino allo sci di fondo e prove di endurance a motori, come la Parigi-Dakar, ad esempio.

Giocavo a calcio, ma volevo essere un ciclista. Però non mi piaceva faticare a scuola. Stare attento in classe e studiare erano per me le cose più faticose del mondo.

Sostanzialmente a me è sempre piaciuto il gioco dello sport, che poi certo, spesso questo gioco combacia con la fatica.

Quando ho iniziato a correre il rapporto tra piacere e fatica è diventato ovviamente più stretto.

Quando poi ho iniziato a praticare l’ultratrail si è aggiunto anche un atro fattore, il dolore, che non è di certo una cosa che cerco, anzi, ma talvolta in questa disciplina dura e impegnativa il dolore è da mettere in conto.

Bisogna saperlo riconoscere, accettare, e capire fino a che punto sia gestibile e quando si corre il rischio di farsi davvero male.

Bè, il me stesso giovane, che andava a scuola controvoglia, ma che si divertiva a giocare a calcio appena poteva, o a provare a fare qualche canestro con la palla più grande di lui, o a pedalare con una bici scassata tentando di andare più forte che poteva appena vedeva un cavalcavia, come avrebbe reagito a questa pandemia?

Della didattica a distanza probabilmente sarebbe stato contento, almeno all’inizio, anche se forse sarebbe stato ancora meno attento di quanto già non fosse.

Probabilmente non sarebbe stato positivo nemmeno non vedere più i propri compagni, anche se non sempre questi erano amici. Di sicuro gli sarebbe mancato lo sport.

Gli impianti chiusi, i campionati sospesi, meno divertimento con gli amici a inventarsi gare in bici intorno al proprio quartiere o partite di pallone improvvisate usando zaini o magliette come porte e usando il primo pallone che si trovava, anche sgonfio e bucato, in mancanza di altro.

Nella mia difficile adolescenza avevo via via abbandonato lo sport praticato, fino al momento in cui me ne sono pentito e ho capito l’importanza dell’attività fisica. Forse perché spesso ci si accorge davvero dell’importanza di qualcosa quando questa manca.

Il giovane me stesso, probabilmente, all’interno di questa pandemia avrebbe abbandonato con ancora più facilità, sia perché parzialmente costretto dalla scarsa considerazione che ha lo sport giovanile, sia perché la motivazione sarebbe svanita facilmente e in un pericoloso circolo vizioso l’umore sarebbe stato peggiore di quanto già non fosse stato davvero ai miei tempi. (A proposito, leggevo recentemente di uno studio americano che mostrava come i giovani che hanno praticato sport nell’ultimo anno abbiano una netta minore incidenza di stati depressivi o ansiosi rispetto a chi non ha fatto attività. Certo, forse non ci vorrebbe nemmeno uno studio per capirlo).

Prendo ora da esempio i miei nipoti. Christian lo scorso anno si era visto annullare due volte le qualificazioni per gli assoluti di nuoto (che erano il suo sogno) il giorno prima della gara. Tra lockdown e piscina chiusa per mesi non ha avuto alcuna voglia di tenersi in forma in casa, ma quando è potuto tornare a nuotare ha avuto più motivazione che mai, tanto da migliorarsi costantemente (dato il suo livello ha avuto la possibilità di allenarsi e competere, per fortuna).

Kevin e Giacomo, che invece giocano a calcio, senza allenamenti e campionati non vedono l’ora di poter tornare a giocare, non stanno più nella pelle. Di certo ci saranno molti che avranno abbandonato e forse non riprenderanno, ma ci saranno anche tanti che ripartiranno con ancora più voglia.

La mia speranza, o forse illusione, è che come è successo ai miei nipoti, molti giovani che nell’ultimo anno sono stati costretti a fare meno attività fisica, possano trovare una nuova voglia di muoversi e fare sport.

Forse accorgendosi proprio dell’importanza di quello che manca, com’era successo a me. Che sia solo voglia di divertirsi “giocando”, e che essa passi o meno attraverso una sana dose di fatica, l’importante sarebbe semplicemente tornare a fare sport con più desiderio di prima.

Che poi, a pensarci bene, nulla è più faticoso del reggere questi tempi. Di fatica i giovani ne stanno già facendo non poca. Se sapranno coglierne eventuali risvolti positivi in futuro e trasformarli nello sport, potrà nascere qualcosa di meraviglioso.

Stefano Ruzza

 

Stefano Ruzza ha iniziato a correre nel 2004 per riprendere fiato da una vita complicata e difficile. Dopo 3 anni la prima maratona e le prime corse in montagna. Nel 2010 i primi Ultratrail. Dal 2013 nel Trail running Team Vibram.  Allenatore di trail running & corsa.