Giancarlo Pedote orgoglio italiano

Sedici parole.

“Giancarlo Pedote a bordo di PrysmianGroup ha tagliato il traguardo della Nona edizione della Vendèe Globe.”

Sedici parole possono essere niente, o possono essere una storia. Possono scorrere via veloci e quasi indifferenti, o possono emozionare e far battere il cuore.

Restano sempre le stesse sedici parole, ma la differenza la fa quello che c’è dietro.

Perché un lettore, che non sa nulla di vela o della Vendèè Globe, non sa che quelle sedici parole raccontano ottanta giorni da soli in mezzo i mari di tutto il pianeta, in mezzo agli iceberg e agli albatros, a contatto diretto con le forze della natura e con la parte più intima dell’essere umano.

Ottanta giorni di avventura e pura poesia.

E allora per dare il giusto rilievo a quelle sedici parole, e il dovuto riconoscimento all’immensa impresa di Giancarlo Pedote, tocca spendere qualche riga, per spiegare perché la Vendeè Globe non è solo una regata, e quelle sedici parole non sono semplice cronaca, ma la conclusione di qualcosa di assolutamente fuori dal comune.

IL PERCORSO

Abbiamo detto che la Vendeè è una regata intorno al mondo in solitaria.

La particolarità di questa regata però è che non si fa il giro “comodamente” passando per i canali di Panama e Suez, mantenendosi a latitudini “normali” con venti e temperature “normali”.

No, i ragazzi della Vendee il giro del mondo lo hanno fatto circumnavigando l’Antartide.

Che detto così potrebbe sembrare anche una banalità, ma vi assicuro che tutto è tranne che banale.

Andiamo con ordine:
I nostri eroi sono partiti dalla Francia, da un posto con un nome da sogno: “ Les Sables d’Olonne”, sulla costa Atlantica Francese; da lì hanno disceso l’Atlantico fino al Sud Africa, doppiando poi il Capo di Buona Speranza e dirigendosi verso l’Australia.

Ora, non tutti sanno che il nostro globo (non me ne vogliano i Terrapiattisti) è percorso da venti dominanti, che in determinate zone hanno delle caratteristiche assai peculiari.

Al di sotto del quarantesimo parallelo sud ad esempio avviene che l’aria fredda dell’Antartide si vada a scontrare con le correnti calde degli oceani, andando a creare fenomeni particolarmente intensi, resi ancora più estremi dal fatto che al di sotto del cinquantesimo parallelo i venti creatisi non incontrano l’ostacolo della terraferma per migliaia e migliaia di chilometri.

In queste zone il vento soffia talmente forte da diventare un ruggito costante ed assordante, e più si scende verso sud, più aumenta di intensità.

Erano zone ben conosciute e temute dagli antichi navigatori, che per viaggiare tra i continenti non potevano contare sul canale di Panama o di Suez, e in qualche modo ci si dovevano confrontare; e avevano coniato dei nomi azzeccatissimi per descrivere le condizioni che vi incontravano:

i quaranta ruggenti, i cinquanta urlanti, i sessanta stridenti: come se all’aumentare della latitudine aumentasse l’intensità delle perturbazioni, e con esse il rumore del vento tra le sartie si facesse sempre più acuto ed insopportabile.

Bene, il nostro Giancarlo (e con lui gli altri meravigliosi poeti solitari partecipanti alla regata) dopo aver disceso l’atlantico ha doppiato il capo di Buona speranza (che segna convenzionalmente il passaggio dall’oceano Atlantico all’Oceano Indiano) è entrato nel “grande sud”, navigando per quasi ottomila chilometri nei quaranta ruggenti; quindi ha superato Cape Leuwin, la punta più a sud dell’Australia ed è entrato nell’oceano Pacifico, percorrendo oltre diecimila chilometri nella zona dei cinquanta urlanti: diecimila chilometri di vento assordante, onde alte come alberi, freddo intenso e costante, e il passaggio da Nemo Point.

NEMO POINT

Il Nemo Point, ad onta del nome, non è un punto vero, è più che altro un concetto; per renderlo comprensibile ai meno avvezzi con le storie di mare spero mi sarà perdonata un’altra breve digressione.

Siete mai stati soli?

Sicuramente soli in casa: distanza dall’essere umano più vicino, non più di venti metri.
Magari soli per strada, di notte con un po’ di angoscia: distanza dall’essere umano più vicino, un centinaio di metri.

Qualcuno si sarà trovato da solo in un bosco, o su una montagna, o in campagna: distanza dall’essere umano più vicino, diciamo 10 km.

Chi di noi ha vissuto proprio la solitudine avrà attraversato un qualche deserto, o landa desolata: distanza dall’essere umano più vicino, esageriamo, 300 km.

Bene, questi ragazzi che attraversano l’oceano, ognuno da solo sulla propria barca per mesi, quando arrivano al Nemo Point raggiungono il punto dell’intero globo più lontano da qualunque pezzo di terraferma: 2688 KM.

Da Nemo Point in qualunque direzione si vada, per raggiungere un qualunque pezzo di terraferma (sia esso un’isoletta, o un misero scoglio) bisogna percorrere almeno 2688 Km. Per intenderci, i più avanzati elicotteri in circolazione hanno un raggio d’azione di 800 km.

Paradossalmente chi si trova a Nemo point si trova più vicino agli astronauti della Stazione Spaziale Internazionale che a qualunque altro essere umano.

Duemilaseicento chilometri di oceano intorno a se significa non solo essere soli sulla propria barca, ma anche parecchio al di fuori di ogni possibilità di soccorso o intervento da parte del mondo esterno.

Soli.
Ma veramente soli.

Su una barca a vela, lontani da tutto e da tutti.

Con un vento che giorno dopo giorno urla tanto forte da non riuscire a sentire altri rumori.

Tra onde alte come autobus, nei giorni buoni
Su un mare tanto freddo che inizia ad esserci il pericolo di Iceberg

E al termine di questa navigazione ai limiti del tollerabile, c’è in attesa quello che in un videogioco anni ’80 avrebbe rappresentato il mostro finale, la sfida estrema: Capo Horn.

CAPO HORN

Capo Horn è una leggenda per tutti i marinai.

E’ la punta più a sud della terra del fuoco (a sud della Patagonia) e bisogna doppiarlo per entrare nell’Atlantico e risalire verso l’Europa.

Il guaio è che Capo Horn non è mai molto disponibile a lasciarsi superare.

E’ caratterizzato da un mix esplosivo di condizioni che hanno alimentato la sua leggenda, trasformandolo in un cimitero di navi e marinai.

Innanzitutto il vento: siamo nel pieno dei 50 urlanti, e le statistiche dicono che il vento ha un’intensità di burrasca (oltre 40 nodi) per più di 20 giorni al mese.

Per capirci: con 25 nodi di vento vengono chiusi gli impianti sciistici; con 35 nodi viene interdetto di decollo agli aerei; con 40 nodi i traghetti non escono dal porto.

A Capo Horn 2 giorni su tre ci sono più di quaranta nodi, e se si è sfortunati è anche peggio.

Ma il vento non è neanche il primo dei problemi. Il vero guaio a Capo Horn è il mare, che è sempre incazzato, ma incazzato di brutto.

Sembra quasi che per giocare un brutto scherzo ai marinai il buon Dio si sia divertito a disegnare un brusco innalzamento del fondale, che in poche miglia passa da oltre 4000mt di profondità a poco più di cento: con un fondale così le onde del Pacifico si mixano con quelle dell’Atlantico e dell’Oceano Antartico, creando dei mostri di oltre dieci metri che frangono e si incrociano, rendendo la navigazione un vero e proprio inferno.

Doppiare Capo Horn e poterlo raccontare non è mai stata una cosa scontata: non a caso nell’800 l’orecchino portato dai marinai era il segno distintivo di un club piuttosto ristretto, i “Cape Horners”, cioè quell’elite di marinai che poteva vantarsi di aver doppiato capo Horn (ed essere sopravvissuto).

E per entrare in quell’elite Giancarlo ha dovuto lottare.

“Ci sono raffiche a 40 nodi, l’acqua è “polverizzata”, non si vede nulla… sono condizioni dantesche”, ha comunicato prima di arrivare al Capo.

Ma ha tenuto duro. In quel delirio di vento e freddo si avrebbe voglia di rimanere al caldo sottocoperta, ma Giancarlo sapeva che avvicinandosi al Capo le condizioni sarebbero ulteriormente peggiorate, e bisognava preparare la barca.

In particolare c’era da andare a togliere la vela di prua. Adeguatamente vestito ed imbragato Giancarlo ha lasciato il calore dell’abitacolo per avventurarsi a prua tra le onde e gli spruzzi di acqua gelata.

Proprio le sue parole ci aiutano a capire:

“Navighiamo in un vento da 290 che prenderà la destra via via che ci avvicineremo a Capo Horn, e si rafforzerà. Ho tolto la vela davanti, una manovra lunghissima a causa della stanchezza, del freddo che congela tutti i muscoli… ti muovi lento, controlli tutto più volte perché sei stanco…

Una manovra che normalmente faccio in 15 minuti, oggi ci ho messo 1 ora e mezza.
L’acqua era ghiacciata, mi sono cambiato, ho messo le cerate e gli stivali a sgocciolare, ho finito di sistemare tutto. Adesso ho chiuso la veranda, sono sempre concentrato a fare le piccole cose, ad ascoltare la barca.
Non dovrebbero esserci più bordi fino a Capo Horn”.

Lo immaginiamo Giancarlo concentratissimo ad ascoltare la sua barca, su quel mare che sembra di essere in una lavatrice, attento ad ogni tonfo, quasi cercando di trasmettere alla sua Prysmian Group la forza di resistere ed andare avanti.

E poi qualche ora dopo, galoppando su un mare spaventoso, sospinta da 45 nodi di vento e come sostenuta dal grande cuore di Giancarlo, Prismian Group ha doppiato il Capo, portando Giancarlo di diritto nel club dei Cape Horners, e riservandogli un posto speciale nei nostri cuori.

IL RITORNO

Doppiato Capo Horn la strada sembra in discesa, si tratta “solo” di risalire l’Atlantico e tornare a casa.

Giancarlo è entrato nella leggenda della vela italiana, e – quello che più conta – ha compiuto un’impresa umana memorabile: pensate forse che si sia adagiato sugli allori? Macchè.

Finita la sfida per la sopravvivenza, ed entrato in acque più normali (ed è ridicolo solo l’idea di definire “normale” l’attraversamento di un oceano in solitaria) Giancarlo ha deciso di iniziare a spingere.

“La temperatura è già aumentata, le onde sono proporzionate al vento, adesso è possibile regatare: 13 gradi a bordo. Era tanto tempo che il termometro non montava a queste temperature!”

Non sappiamo se ha prevalso in lui lo spirito di competizione, o piuttosto la voglia di tornare il più presto possibile da sua moglie Stefania e dai suoi bambini, ma da dopo Capo Horn Giancarlo ha iniziato a forzare le vele, e si è reso protagonista di una splendida galoppata sull’Atlantico, che l’ha portato a finire la regata nel gruppo di testa con un arrivo che ha dell’incredibile: dopo ottanta giorni di regata e oltre quarantamila chilometri percorsi circumnavigando il globo, i primi dieci partecipanti hanno tagliato il traguardo ad una manciata di ore di distanza l’uno dall’altro.

L’ORGOGLIO

Bene, io lo so che fronte alle forze della natura nella loro forma più pura e primordiale non dovrebbero esistere nazionalità, non dovremmo nemmeno porci il problema.

Ci sono degli esseri umani che dando voce all’Ulisse Dantesco usano le vele per fare da ali al loro “folle volo”, in cerca di virtute e conoscenza.

Ognuno di loro concludendo un’impresa del genere ha portato tutti noi, in quanto appartenenti al genere umano, un passettino più in su, e non esistono Inglesi, Francesi o Italiani, ma Esseri Umani nella loro espressione più nobile e pura.

Però.

Però io forse sono un uomo piccolo, ma nel momento in cui Giancarlo, un Italiano, ha doppiato il capo, mi è sembrato un po’ di averlo doppiato anch’io.

C’è un pezzettino di Italia che ha navigato nei mari più insidiosi del Pianeta; c’è un Uomo che ha scoperto la vela sulla costa della Toscana e, e dopo aver navigato in solitaria intorno al Pianeta e superato Capo Horn, oggi ha tagliato il traguardo, ed è tornato a Les Sables d’Olonne.

E io ancora una volta mi sono sentito terribilmente orgoglioso di quell’uomo, Italiano come me.

“Il primo sorso è per il mare, Il secondo per la barca ed il terzo… per Giancarlo”.

Così brindò Giancarlo quando superò il Capo.
Ma il suo sorso è anche il mio, che stasera brinderò ancora alla sua salute e alla sua impresa.

E dovrebbe essere il brindisi di tutta una Nazione, che a volte è tanto presa dal piangersi addosso che si scorda della sua bellezza, e si dimentica di dare il giusto risalto alle imprese dei suoi figli più coraggiosi.

Giancarlo Pedote, orgoglio Italiano.

Andrea Sylos Labini