La prima mezza maratona che ho corso

Alla fine, la mia prima mezza maratona l’ho corsa, tre settimane fa, a Roma. La partenza era in via dei Fori imperiali, ci sono arrivato con la metro B.

Sul vagone della metro, alle 7 di mattina, di domenica, eravamo solo io e un altro tizio coi calzoncini corti e la canottiera che si capiva sarebbe sceso pure lui alla fermata Colosseo per correre la mezza, come me. Ci siamo guardati, io e lui, e io ho cercato di fare un’espressione sicura, come se la sapessi lunga sulle mezze maratone, come se stessi per partecipare all’ennesima mezza maratona della mia vita, ma poi, quando sono uscito dalla metro, mi sono sentito come al primo giorno delle superiori, che mi sembravano tutti più grandi di me e io non sapevo nemmeno bene dove andare.

Alla partenza ero emozionato. Al primo chilometro mi sono ricordato che il primo chilometro, per me, è sempre quello più faticoso, quello in cui di solito penso: «Non ce la farò mai», e allora, anche un po’ per scaramanzia, ho pensato: «Non ce la farò mai».

Al secondo chilometro mi sono subito trovato davanti a una salita, e così ho fatto fatica a correre anche il secondo chilometro. Anche al terzo chilometro ho fatto fatica, sentivo i pacer di fronte a me che parlavano tra loro, uno diceva agli altri due: «Facciamo questo ancora veloce e poi rallentiamo un po’, abbiamo quasi venti secondi da gestire». Al quarto chilometro c’era il ristoro, ho bevuto, avevo già corso quattro chilometri, che non sono pochi quattro chilometri, sono quasi un quinto della gara, «mica male» ho pensato, «magari è meno faticoso di quello che m’immagino».

Ho corso quasi tutto il tempo incollato a un pacer, Simone, che teneva legati sulla schiena dei palloncini azzurri su cui era scritto il tempo con cui avrebbe tagliato il traguardo chi stava dietro a lui. Gli parlavo, ogni tanto, perché ho scoperto che durante la mezza maratona si parla mentre si corre, e ci riconosce, quelli che corrono da tanto tempo si riconoscono tra loro, e si salutano, e si mettono in posa per le foto, e sorridono a chi li guarda e fa il tifo ai lati della strada.

All’ottavo chilometro è passato un tale che si lamentava perché voleva accelerare e gli altri, sosteneva lui, lo rallentavano, e mentre il tale si lamentava qualcuno ha commentato: «Ecco un altro runner della domenica», e l’ha detto nella stessa maniera in cui mia nonna, professoressa di italiano e latino al liceo, diceva: «Eccone un altro che non ha studiato».

Al decimo chilometro mi sentivo leggero e pieno di energie. Al tredicesimo ero in fin di vita. Forse, ora che ci penso, è stata una faccenda psicologica la fatica del tredicesimo chilometro. Il fatto è che alla partenza avevo incontrato un vecchio amico, uno con cui ci vediamo poco, che corre da molto tempo, e che mi raccontava di come fosse riuscito a sgattaiolare fuori di casa, quasi di nascosto, per partecipare alla gara, io lo ascoltavo e mi sforzavo di non chiedergli: «Ma tu a quanto la corri la mezza?» perché poi lo sapevo che m’avrebbe detto un tempo che a me sarebbero serviti i pattini per stargli dietro, e allora non ho detto niente, e lui ha continuato a parlare e mi ha raccontato che alla Roma-Ostia era crollato al tredicesimo chilometro. La mia testa deve essersela ricordata questa cosa della Roma-Ostia, perché pure a me, al tredicesimo chilometro, è successo che non ce la facevo più e volevo smettere di correre.

Poi però ho sentito un pacer che gridava: «Daje che è fatta», era dal secondo chilometro che ogni tanto gridava «Daje che è fatta»,e m’è venuto da ridere, e gli ho chiesto, al pacer: «Ma dove siamo?», perché ero talmente concentrato sulla stanchezza che non sapevo più dove eravamo, e lui mi ha risposto: «Al Villaggio Olimpico». E allora a me è venuto in mente il monologo di Nanni Moretti in Cario Diario: «Anche quando vado nelle altre città, l’unica cosa che mi piace fare è guardare le case, che bello sarebbe un film fatto solo di case, panoramiche su case: Garbatella 1927, Villaggio Olimpico 1960…» e mi sono messo a guardare le case.

Quando ho smesso di guardare le case siamo arrivati sul Lungotevere e ho corso in un sottopasso orribile in cui sono passato tante volte con la macchina e che però, a correrci dentro urlando per sentire l’eco che sbatte sul cemento armato, mi è sembrato molto meno brutto del solito.

Al diciannovesimo chilometro ero in Via del corso e Simone, il mio pacer, mi ha suggerito di allungare, solo che io non volevo allungare, mi volevo fermare, però volevo anche arrivare alla fine, c’ero quasi, non potevo mica mollare, e allora a Simone non ho risposto che non ce la facevo, ma ho rallentato un po’, in modo che lui mi perdesse di vista, e magari pensasse che davvero avevo allungato come m’aveva suggerito, mentre invece io ero dietro. E lì sono rimasto, fino al traguardo, che poi ho tagliato, al chilometro 21,095, come succede in tutte le mezze maratone del mondo, credo.

 

Matteo ha cominciato a correre quando non si poteva correre, quando c’era il lockdown, quando ce l’avevano tutti coi runner. Pensava che sarebbe durata poco, che avrebbe smesso quasi subito. Ancora non ha smesso però.