Julio Velasco e la sua rivoluzione del Metodo Globale

Questa è la storia del più grande coach di tutti i tempi. L’allenatore che ha rivoluzionato il mondo della pallavolo, conquistato 2 ori mondiali, 3 europei, 5 titoli della World League e un argento alle Olimpiadi.

Julio Velasco è stato l’unico coach al mondo che ha vinto il titolo continentale in due continenti diversi (Europa e Asia).

Il mondo della pallavolo si divide in due fasi storiche, prima di Velasco e dopo Velasco.

Per comprendere meglio la rivoluzione generata da questo argentino caparbio e visionario ne abbiamo parlato con chi della pallavolo ne ha fatto una filosofia di vita.

Claudio a bordo campo con i suoi ragazzi

Claudio Gervasoni è un amico che sotto rete ci ha passato tutta la sua gioventù e ancora oggi allena ragazzi per farli arrivare sempre più in alto e non solo a muro o schiacciando contro gli avversari.

Prima di Velasco la tecnica era un modello astratto ideale, il bagher era un esercizio da ripetere 100 volte contro un muro, legato alla biomeccanica del movimento per raggiungere una perfezione tecnica assoluta.

Negli anni 80, ricorda Claudio, la tecnica analitica primeggiava, ciò che fece Velasco fu stravolgere questo approccio, per cui la tecnica doveva essere calata nel gioco attraverso un METODO GLOBALE.

Questa fu la novità incredibile mai provata da nessuno (negli sport di squadra) fino a quel momento si intende.

La fortuna volle che Velasco si trovò ad allenare, nel posto e al momento giusto, un gruppo di ragazzi che aveva maturato una tecnica perfetta.

Parliamo di quella “generazione di fenomeni” che costituirono l’ossatura della nazionale italiana maschile nel corso degli anni ‘90, considerata una delle formazioni più forti di tutti i tempi.

Il gruppo con Giani, Lucchetta, Zorzi, Bernardi, Papi per citarne alcuni, Velasco li ha messi in campo con il suo metodo globale e il miracolo venne fuori.

Non solo cambiò il metodo di allenamento inteso come sviluppo della tecnica in campo in situazione di stress ma cambiò perfino la risposta del giocatore alla palla, così come l’avevamo vista fino a quel momento

Claudio Gervasoni conosce ogni aspetto di questa rivoluzione teorica e pratica messa in atto da Julio Velasco comprese le sue frasi famose sulla reazione in campo dei suoi giocatori:

la situazione è com’è, non come pensiamo noi che sia o come vorremmo che fosse

I ragazzi della nazionale erano giocatori così tecnici che avevano già fatto un cambiamento, grazie ad Aleksander Skiba, il quale a metà degli anni 80 aveva lavorato su quel gruppo spianando la strada alla visione del metodo Velasco, vincendo l’argento ai mondiali dell’85 al preparatore argentino non restò che accendere la miccia.

Il coach de La Plata ebbe l’intuizione di applicare la tecnica sapendo che una situazione di gioco cambia in base al ruolo.

Pensate all’ultimo punto di Bernardi nella finale Cuba – Italia ai Mondiali in Brasile.

Schiacciò sapendo che avrebbe trovato il muro avversario da cui la palla sarebbe stata imprendibile per i cubani, non si curò di vedere dove l’avrebbe mandata, ma solo di intercettare le mani avversarie e fu punto.

Era il 28 ottobre 1990 a gli azzurri battevano 3-1 Cuba in finale e conquistando il titolo per la prima volta nella loro storia.

Era un tecnica di Velasco, approfitta della situazione e schiaccia forte.

Velasco è argentino, 68 anni e oggi le sue lezioni di leadership sono ormai leggenda. Nasce professionalmente come insegnante di filosofia, giocatore e poi allenatore di volley.

Scappa dall’argentina dei colonnelli e approda a Jesi. Da lì una serie di fattori si allineano alla perfezione i quali hanno fatto uscire fuori prima l’uomo e poi il tecnico che dalla A nella cittadina marchigiana, si sposta nel tempio della pallavolo mondiale, a Modena dove vince 4 scudetti e prende le redini della nazionale.

Ma spesso le situazioni favorevoli sono illuminate da incontri che esaltano le doti degli uomini e quello con Marco Paolini, che nella stagione 1985/86 è stato l’allenatore più giovane di tutta la Serie A1, fu ancora più importante per Velasco.

Paolini a quel tempo ha una sua visione apocrifa del gioco, creando una sintesi di tanti giochi, giapponese americano per citarne alcuni per approdare a un mix fatto di metodo globale e tecnica in campo, i quali diventano i fire starter dell’era di Velasco.

La squadra della nazionale venne costruita su un approccio antropomorfo.

La “generazione dei fenomeni” era già il frutto di una ricerca dei talenti anche in base alle caratteristiche fisiche che servono per giocare a pallavolo.

Ragazzi tutti uguali tra loro, i 2 metri di altezza era la regola ma non solo, anche la tecnica doveva rispettare caratteristiche antropomorfe, se non eri sopra ai due metri dovevi saper palleggiare come un dio e così era per Bernardi che non era sopra i 2 metri.

Cosa resta del metodo Velasco?

La sua rivoluzione ha fatto sì che molti dei più giovani non ricordano l’approccio analitico al volley.

Oggi ogni situazione di gioco è studiata al millimetro, ogni tecnica applicata in campo segue la teoria dello scouting grazie alla quale applico un voto sulle parti del gioco dei singoli e le analizzo con tecnologie adeguate fino a rivedere ogni volta come si muove un giocatore e così vengono fuori punti deboli e potenzialità.

La tecnica è la tattica della vita dice Claudio facendo sua la frase di Oswald Spengler.

Oggi Velasco è direttore tecnico del settore giovanile della federazione e ha pensato bene, nell’ottica di sviluppare tutto il gioco su ogni ragazzo, che gli under 14 non fanno più la battuta con il salto, non serve perdere ore e ore di allenamento per sviluppare una fase di gioco quando è indispensabile saperle affrontarle tutte.

La rivoluzione metodologica di Velasco lo ha portato ad avere a bordo campo lo psicologo dello sport, una figura nuova che sapeva leggere le partite e i giocatori con metodo innovativo.

Bruna Rossi fu la psicologa dell’Italia di volley e di pallanuoto di Rusic, il quale aveva la stessa visione di Velasco.

Oggi ci piace pensare che la rivoluzione di Velasco sia da applicare anche nella vita perché come dice spesso lui parlando degli anni che passano

“Ho 67 anni e faccio fatica a sentirmi “vecchio” ad associarmi a quella parola. Forse dovremmo inventarne altre, la vita raddoppia le sue stagioni, anche per l’adolescenza che ora dura dai 15 ai 25 anni. Il fascino del lavoro è la creatività, il poter pensare cose nuove. La giovinezza, a prescindere dall’età, è continuare a risolvere i problemi.”

Grazie Coach.