IO, ULTRAMARATONETA PER CASO 

Il mio sogno, ve lo dico subito, non è mai stato quello di diventare una Ultramaratoneta.

Sono talmente innamorata della distanza della Maratona, così nobile e leggendaria, che non sentivo affatto l’esigenza di superarla per “spostare il limite” o “alzare l’asticella”: obiettivi rispettabilissimi, ma non erano i miei.

Io volevo proprio correre quella gara, l’Ultramaratona del GranSasso 50km: ne avevo sentito parlare, avevo visto foto e letto racconti e ne ero stata letteralmente conquistata: “la più bella”, dicevano tutti.

L’anno scorso, quando avevo all’attivo solo due Maratone, un amico ultramaratoneta mi disse: “Puoi farcela, ma devi sentirlo nella testa, prima che nel fisico, di essere pronta”. E io nella testa me lo sentivo tantissimo… purtroppo il corpo mi ha tradito: un piccolo infortunio mi ha fermato a giugno per qualche settimana, troppo sotto data perché potessi anche solo pensare di iscrivermi.

E dunque i mesi passano, corro altre due Maratone e accumulo esperienza, emozioni, successi e fallimenti. Quando si aprono di nuovo le iscrizioni alla Ultramaratona del Gran Sasso non ho più dubbi: voglio provarci.

La preparazione

Ma come si prepara una Ultramaratona, per di più in montagna e con dislivelli così impegnativi?

Come faccio sempre, leggo, mi informo, chiedo consiglio e ascolto molto e tutti, fino a farmi una mia idea: ne esce fuori una tabella impegnativa ma gestibile che, spero, mi faccia arrivare al giorno della gara allenata ma non spossata, nel rispetto dei miei (notevoli) limiti fisici.

Ho amato profondamente questa preparazione: nonostante l’abbia portata avanti per lo più da sola, nonostante i lunghissimi sotto il sole di giugno e luglio, percepivo che il mio stato di forma, con pazienza e senza eccessi, migliorava.

Eppure, all’approssimarsi del grande giorno, si sono affacciati anche i primi timori: paura di dover affrontare un’impresa più grande di me, paura di essermi preparata poco o male, paura che quella salita di quasi 14km sarebbe stata impossibile da scalare (a quale somiglia? Al Gianicolo? Alla salita del camping della RomaOstia? Avevo bisogno di un termine di paragone per provare ad immaginarla, almeno)

Senza contare le questioni più pratiche: basteranno due gel? Fascia o cappellino? Mi porto lo zainetto da trail, per avere acqua sempre disponibile, visto il caldo infernale, o è meglio non appesantirsi? (poi ho scelto lo zaino, sempre sia lodato)

A pochi giorni dalla gara però, complice proprio un post qui su Storiecorrenti (grazie!), mi sono resa conto che, persa dietro a questi pensieri, stavo perdendo di vista la cosa più importante: non stavo andando in guerra, ma a prendermi il mio sogno, facendo quello che amo fare e (a modo mio) so fare… correre.

La gara

È sempre così: quando premo il pulsante “Start” sul Garmin, tutte le tensioni di sciolgono.

Il primo km si snoda tra i vicoli di Santo Stefano di Sessanio, siamo tanti ed euforici, quasi si cammina e bisogna fare attenzione ai sampietrini. Metto un piede in fallo ma mi riprendo subito, penso con terrore che la mia Ultra poteva finire dopo 500metri, ricaccio indietro questo pensiero e vado avanti.

Quando la strada si apre, i km corrono via veloci, per caso alzo gli occhi e mi emoziono vedendo Rocca Calascio, il castello di Lady Hawke che avevamo visitato il giorno prima (archivia in: “cose da non fare prima di una Ultramaratona”… trekking in montagna!)

Mi godo questi paesaggi dal fascino aspro e selvaggio: sono oro e roccia, verde e azzurro, tanta bellezza mi incanta mentre una brezza fresca accarezza l’erba e attenua il tanto temuto caldo.

Quasi senza accorgermene, sono all’inizio della famigerata, lunghissima salita: la affronto come posso, cercando di camminare il meno possibile e, dopo Castel del Monte, una inaspettata, breve discesa mi dà coraggio.

Quando riprende la salita, ancora più ripida, decido che non voglio dare tutto ora: non siamo neanche a metà gara e non devo uscire esausta da questa scalata. Brevi tratti di camminata mi permettono di riprendere fiato e, del resto, i trail a cui mi sono appassionata nel corso di questo ultimo anno mi hanno insegnato che a volte “vale camminare”, non si compromette nulla, tutt’altro.

Quando vedo il cartello di Valico Capo La Serra esulto dentro di me: la salita è finita, un volontario mi grida che ora ci sono 5km di discesa. Un moto di commozione mi chiude la gola: ho capito finalmente, all’improvviso, a quale percorso somiglia questa strada che si snoda tra i monti. È quella dove corro sempre quando torno al paesello dei miei nonni, il mio posto del cuore, e riconoscerla qui, su questa montagna così vicina al cielo, mi emoziona tantissimo… e il pensiero vola a chi, quella strada di paese, l’ha percorsa insieme a me tantissime volte e poi, quel cielo, lo ha raggiunto troppo presto: in quel momento decido che questa gara sarà per lui.

A questo punto, stando al tracciato del percorso, sarebbe dovuta iniziare una parte più gestibile, con saliscendi continui ma senza impennate… “facile”, per così dire.

Ma la montagna è imprevedibile: a Campo Imperatore si alza un vento fortissimo, implacabile. Le raffiche ci costringono a camminare persino in piano, il mio cappello vola via due volte e, dopo oltre 30km, i muscoli iniziano a mordere.

“Corri fino a quel palo, poi cammina fino alla macchina. Corri 500m, poi ne puoi camminare 200”: tento questa strategia, nella fase più dura in assoluto, il rumore del vento è assordante, quasi non sento neanche i miei pensieri, sono completamente fradicia e temo che mi si geli addosso l’acqua che mi sono versata ripetutamente ovunque quando il sole picchiava duro.

Approfitto di ogni tratto poco ventoso o appena pianeggiante per correre più a lungo, so che a breve inizierà l’ultima salita, breve ma ripida, che porta all’agognato ristoro del 40°km.

E l’impennata arriva, cammino velocemente, ringrazio di avere l’acqua a portata di mano nello zaino, ora siamo davvero in alto e il panorama è magnifico… e poi intravedo anche lui, il Gran Sasso, e allora riprendo a correre, sono stanchissima ma so che ci siamo quasi.

Per la prima volta guardo sul Garmin il tempo trascorso e vedo con stupore che siamo intorno alle 4h30. Non mi ero posta alcun obiettivo di tempo per questa gara, anche perché non avevo idea di cosa avrei affrontato, né di come avrebbe risposto il mio corpo superata la distanza della Maratona. Indicativamente, mi ero data però un appuntamento al traguardo con mio marito “ben oltre le 6h”. Quando vedo il ristoro del 40°km, come una specie di miraggio, lì c’è anche lui: incredula, lo abbraccio forte, un bacio e via, adesso c’è la discesa tanto agognata.

Corro veloce, forse anche troppo, ma 10km adesso mi sembrano pochissimi…  l’entusiasmo è alle stelle e ho dimenticato il vento, il caldo, le salite, le paure. So che ormai è fatta. Al 43°km sorrido pensando che, tecnicamente, sono già un’ultramaratoneta.

Uno strappetto in salita al 45° (non me lo avevano detto!) rallenta la mia folle corsa, riprendo fiato, ringrazio i volontari al ristoro, penso che manca solo una parkrun e riparto con decisione fino al traguardo, che supero con un saltello di felicità… oltre quella linea, dopo cinque ore e trentuno minuti di fatica e meraviglia, mi aspetta la medaglia più bella di sempre.

E adesso? 

L’ho chiamata in molti modi, questa gara: la gara delle gare, la garona, il mostro… ma, prima di ogni altra cosa, è stata il mio “sogno matto”.

Ve l’ho detto da subito, infatti: il mio sogno era correre la Ultramaratona del Gran Sasso, non quello di diventare una Ultramaratoneta.

Eppure oggi, alla fine di questo viaggio incredibile, ho scoperto anche di amare le lunghissime distanze: quelle dove non servono necessariamente il talento o le doti fisiche… bastano la determinazione, la caparbietà, la pazienza, il coraggio e un’enorme fiducia nel fatto che i sogni, qualche volta, si possono realizzare.