Un runner con l’influenza è l’ultima cosa che, in questi giorni, vorreste avere in casa.
Specificamente trattasi di atleta di sesso maschile, a ridosso degli anta, in una combo che rende la convivenza ai limiti della sopportazione.
Perché quando succede, e per fortuna succede raramente, non ci sono margini di trattativa, la sua caducità muscolare è la misura del tracollo fisico per le prossime 12 maratone che aveva programmato.
Non basteranno il conforto dei figli, le parole di incoraggiamento della moglie, la solidarietà dei suoi simili nella chat degli allenamenti.
PRATICAMENTE LUI È IN LUTTO.
A qualsiasi livello salirà il termometro, già dai 37,1 gradi è catatonico, respira con affanno e chiama al capezzale i parenti, ogni due minuti, per avere generi di conforto, cibo e il telecomando che ha lasciato accanto al suo comodino.
Dopo 3 giorni in queste condizioni, in casa, ormai sono tutti allo stremo.
Pregano ogni divinità, dalle sacre alle profane, compreso il Santino di Abebe Bikila appeso in corridoio, il tutto pur di avere una pronta, quanto liberatoria, guarigione.
Finalmente, dopo cinque giorni, eccolo di nuovo in piedi il runner di famiglia, allegro, scattante e pronto per la tapasciata con gli amici, tra i quali si conta più di un allettato.
Lui, in silenzio, fa spallucce e commenta serafico prima di uscire di casa:
“sono pulcini di allevamento, perché diciamola tutta, podisti come me non ne fanno più”
Alla salute.