Il pugilato sta tutto in 3 gradini, saliti i quali non sarai più la stessa persona

Tutto ha inizio con una sveglia puntata alle 3 del mattino di un lontano 1987.

C’è un ragazzo di colore, dalla struttura possente, poco più che diciottenne, che sfida il campione in carica dei pesi massimi, quel ragazzo si chiamava Mike Tyson.

In realtà non feci in tempo a stropicciarmi gli occhi pieni di sonno, che Iron Mike aveva già messo K.O l’avversario laureandosi il più giovane campione del mondo della categoria.

Gli anni 80 e 90 sono stati anni bellissimi per la boxe: Marvin Hagler, Ray Sugar Leonard, Mike Tyson e sono stati gli anni che mi hanno permesso anche di vedere gli ultimi, seppur tristi, scampoli di quella che rimarrà ai miei occhi la leggenda, The Greatest, Alì.

La passione per il pugilato (mi piace di più il termine pugilato a boxe perché mi dà un maggior senso di pienezza e genuinità) me la sono sempre portata dentro ma, per un motivo o per l’altro, ho iniziato a praticare molti anni dopo.

Come un fischio del padrone che richiama il proprio cane, così la storica palestra Team Boxe del quartiere Montagnola, mi ha chiamato a sé.

Struttura semplice, vera e pulsante come un cuore che batte nel petto di un quartiere popolare.

Entrando vengo subito colpito dall’imponenza del ring, rialzato dal pavimento ed accessibile dalla scaletta di tre gradini e mai uno di più, saliti i quali, in futuro, non mi sarò sentito mai più la stessa persona.

Il pugilato è fatica, tanta fatica: corda, vuoto, battiti accelerati e, soprattutto, ripetizione del gesto alla ricerca di una perfezione che non troverai mai: jab, jab, jab e poi gancio, gancio, gancio e di nuovo jab, jab, jab…senti le braccia pesanti, la testa ti porta via da lì, le gambe cedono ma qualcosa dentro di te ti fa tirare ancora un colpo e poi un altro ancora, non so spiegarlo ma riesci a trovare un’energia che non pensavi di avere ma che invece hai dentro.

E poi c’è lui: Il Gruppo

Mai nessuno sport, da me praticato, è riuscito a legarmi ad altri compagni come è riuscito a fare il pugilato.

I legami più forti nascono sul ring. Prendersi a pugni e ritrovarsi più amici, è incredibile ma è così.

Chi sta sopra al ring, ha i tuoi stessi occhi, le tue stesse insicurezze, la tua stessa determinazione, ti sembra di guardarti allo specchio e questo, se non cementa un’amicizia, sicuramente cementa il rispetto reciproco.

Il pugilato è anche avere un soprannome, te lo danno gli altri, te lo dà l’ambiente e all’interno della palestra (ma anche fuori) diventerà il tuo nome.

Di molti compagni non conosco il cognome, a volte confondo i nomi di battesimo, ma non dimentico mai il soprannome, ti identifica e ti rende speciale, unico, sei solo tu a essere chiamato in quel modo, non ce ne sarà mai un altro e ti fa sentire pugile vero anche se sei un semplice amatore.

Dentro al tappeto oppure fuori, non c’è nulla di sbagliato nell’andare al tappeto. E’ restare al tappeto senza rialzarsi che è sbagliato” diceva Muhammad Alì e la pandemia ci ha un po’ messo KO; non possiamo allenarci in palestra e questo ci fa sentire come bambini lontani dalla mamma.

Ci alleniamo all’aperto, distanziati (che ironia per uno sport da contatto…) e il grande GRUPPO è stato costretto a dividersi in tanti, piccolissimi, gruppetti composti da 4, massimo 5 persone.

Ci ospita un circolo di tennis che ci ha messo a disposizione una grande area che noi, come api operaie, abbiamo adattato alle nostre esigenze: qualche sacco appeso, un paio di bilancieri e la solita voglia di sudare.

L’occhio non vede più il ring, austero e inflessibile “maestro”, ma spazio verde e qualche pallina da tennis intorno a ricordarci che siamo ospiti, graditi, ma ospiti.

Come il pugile che ha appena subito un atterramento aspetta che il conteggio arrivi a 8 prima di far segno all’arbitro di aver recuperato, così anche noi contiamo i giorni che ci separano dal ritorno al cuore pulsante di un quartiere popolare.

Marco Fenu