I ragionieri del nuovo

“Ciao Andrea, buongiorno. Allora? Abbiamo finito di flagellarci i coglioni? Guarda che ho salvato i messaggi che mi hai mandato, erano spettacolari.”

“Più o meno, Ste’. Intanto buongiorno… e pure oggi ho fatto tardi. Sono passato da quegli incapaci dell’agenzia. Gli ho detto chiaro e tondo che, senza il documento di sanatoria, blocchiamo tutto.”

“Io mi prendo un caffè, lo vuoi?”

“No, aspetta… devo prima avvisare l’amministrazione che sono in ritardo. Che palle.”

Andrea lavora da diciotto anni in un’azienda romana. È un esperto delle dinamiche lavorative, un paziente conoscitore dei rapporti con i fornitori. Il suo ufficio affaccia sul piazzale della Piramide Cestia, una vista che unisce storia e preistoria in un unico scorcio di Roma.

Sta cercando di cambiare casa, anche se ormai è quasi certo che non se ne farà nulla. È deluso, amareggiato dall’incompetenza e dal pressappochismo delle persone. Dalla mediocrità di chi, ignorando le regole, si ridisegna una realtà su misura.

L’ufficio è il suo habitat dal lunedì al venerdì, dalla mattina alla sera. Lavora con diciannove colleghi, molti dei quali giovanissimi, poco più che ventenni. Da un lato lo rattrista, dall’altro lo rafforza. Lo costringe a vivere un presente fatto di “oggi” e di un “ieri” sempre più distante. Ragazzi nati quando Baggio sbagliava il rigore a USA ‘94 e che non sanno chi sia Francesco Guccini.

Gli uffici sono la sconfitta del luogo di lavoro: spazi né open né space, pieni di stratagemmi per far sopravvivere le debolezze altrui. Tic e manie ripetuti senza sosta, come un badge strisciato nel lettore presenze ogni mattina.

“Ti sei calmato?”

“Sì, va meglio. Tanto so che non ci posso fare nulla.”

Andrea e Stefano sono i veterani del gruppo. Pazienti e insofferenti al tempo stesso, non risparmiano stoccate a chi rallenta il lavoro. La loro nomina è ormai ufficiale: “I due rompi palle del quinto piano.”

“Francesca, scusa… ma io non ce la faccio a sentirti ruminare i taralli alle dieci del mattino. Potresti, non so, lasciarli sciogliere in bocca prima di masticarli?”

Ecco, ci risiamo. Andrea dice quello che nessuno avrebbe mai il coraggio di dire. L’effetto è devastante. Francesca resta sgomenta, non replica. Chiude la busta, non si volta neppure, apre il cassetto e vi ripone i taralli che aveva portato dal weekend trascorso a Lecce dai genitori.

“Ragazzi, un momento di attenzione.” Stefano è in piedi al centro dell’ufficio, caffè in una mano e agenda riunioni nell’altra. “Da sempre abbiamo preteso tastiere a membrana morbida, avvolgibili. Con queste, non c’è bisogno di picchiettare come se foste su un organo Hammond. Per favore, fate piano! Non frantumate le orecchie… e qualcos’altro ai vostri colleghi.”

“Mi ha chiamato l’ufficio relazioni esterne. Vogliono che partecipi al forum delle aziende la prossima settimana.”

Durante la pausa pranzo, Andrea e Stefano si ritrovano al parco sotto l’azienda. A volte corrono, altre si scaldano al sole, seduti su una panchina. Oggi è una di quelle giornate.

“Chi meglio di Andrea Scaponi, il rompicoglioni, avranno pensato quelli del quarto piano.”

“Dai, Ste’, non scherzare. Non è un periodo tranquillo, e parlare di dinamiche lavorative e relazionali, come recita il mio intervento, non aiuta la mia situazione.”

“No no, invece secondo me è il momento perfetto. Chi se lo perde il tuo intervento davanti ai mamma santissima del Gruppo?”

La sala del centro convegni è gremita. Andrea è in piedi davanti alla platea. Lo “stronzo del quinto piano” sta finalmente vuotando il sacco, ma su richiesta. I cinque uomini del Board sono seduti in prima fila.

“Il concetto di equità e trasparenza negli spazi di lavoro è stato tradito dalle nostre stesse abitudini. Tic, manie, piccole follie quotidiane.”

Il brusio si spegne. Tutti ascoltano.

“Il passo pesante del collega nel corridoio. Lo strusciare dei tacchi, sempre lo stesso ritmo. Le dita nervose della ragazza che arrotola una ciocca di capelli. Il commento ripetitivo della mamma di turno, che si bea dei voti del figlio. La mela mangiata ogni giorno, alle dieci in punto, da dieci anni. L’odore invadente di un profumo. Le suonerie dei cellulari. Il continuo sgranocchiare a bocca aperta.”

Il pubblico trattiene il respiro.

“Il clima negli uffici è il risultato di un progetto che, alla luce dei fatti, ha fallito. L’open space, nato per massimizzare lo spazio e minimizzare i costi, antepone il controllo dei singoli alla serenità del gruppo. Siamo costretti ad ascoltare tutto di tutti. Dalle cure mediche di un genitore alle lamentele sui call center. È la moderna catena di montaggio della comunicazione forzata.”

Andrea è un fiume in piena.

“Vediamo la vita accadere attraverso grandi finestre, che danno su altre finestre, che danno su altri uffici, con dentro altre vite. Siamo lavoratori seduti, composti, silenziosi. Allineati e coperti. Regolati da multinazionali anonime che ti cullano, ti curano, ti pagano, e ti fanno essere parte di un sistema.”

Si ferma. Guarda il Board, guarda la sala.

“In questa visione scatologica del lavoro, sono ancora felice di farlo. Il lavoro è la cosa più importante, difende la dignità e il futuro delle persone. Ma ho imparato che dobbiamo sempre cercare un confronto, perché solo così non perderemo la speranza nelle persone.”

“Non ti sei regolato.”

“Che dovevo fare?”

“Esattamente quello che hai fatto, amico mio.”

Andrea e Stefano sono di nuovo sulla loro panchina, sotto l’ufficio. Il sole di ottobre scalda il cemento, scalda loro.

“Ste’, la verità è che siamo i ragionieri del nuovo millennio. Impacchettati nei regolamenti di multinazionali con i tentacoli ovunque. Ti cullano, ti curano, ti pagano, ti incastrano.”

“E quindi?” Stefano chiede senza troppa convinzione.

“Quindi dobbiamo capire se il nostro spazio è davvero aperto. O se siamo solo scatole dentro una scatola, fatte di persone più o meno felici.”

Stefano sorride. “Ci prendiamo un caffè, Andre’?”

Andrea lo guarda, un occhio semi-chiuso davanti al sole all’orizzonte. Sorride.

Sa di essere esattamente come quel momento: caldo e sereno. E sa che il resto arriverà. Tutto quello che spera, arriverà. Ne è sicuro.