Ma quanto è bello lo sport?
Noi che leggiamo Storiecorrenti, e a volte ci scriviamo anche, ne siamo fermamente convinti, nonostante lo sport sia, spesso, anche una gran fatica.
E che dire poi se lo sport non è il nostro? Che dire se per esempio è lo sport preferito dei nostri figli, che guarda caso è poi anche lo sport più popolare, amato, discusso, seguito al mondo?
Tutti i genitori i cui figli giocano a calcio sanno di cosa sto parlando: dal momento in cui il pargolo indosserà la sua prima divisa, nulla sarà più lo stesso.
E non parlo solo di accompagnare e riprendere la prole agli allenamenti settimanali, incastrando sapientemente impegni di lavoro, compiti da anticipare, visite mediche, altre attività extrascolastiche e un minimo di vita sociale: quello viene messo in preventivo fin da quando si decide – giustamente! – di iscrivere i propri figli a qualsivoglia attività sportiva.
È nei finesettimana però che le famiglie dei piccoli calciatori in erba sono messe davvero a dura prova.
L’incubo inizia il venerdì pomeriggio, quando vengono diramate le convocazioni.
Tu, genitore amorevole, mai e poi mai dovrai sperare che il tuo ragazzo non venga convocato alla partita del weekend, anche se questo ti renderebbe la vita molto più facile.
No, tu aspetterai trepidante con lui e con sincerità esulterai scoprendo che tuo figlio è stato convocato domenica, al comodo orario delle 13.00, in viale Vattelapesca, che sta all’altro capo della città: le logiche dei campionati giovanili, infatti, non prevedono che una famiglia debba, che so io, pranzare.
E allora noi, genitori pazienti ed elastici, ci inventeremo una colazione tarda e abbondante oppure stringeremo i denti tutti insieme appassionatamente fino al primo pomeriggio, quando stremati e famelici riusciremo a mettere qualcosa sotto i denti.
I problemi possono poi raddoppiare (o triplicare, o più) quando la prole pallonara è più numerosa e magari tu, genitore incosciente e democratico, hai permesso a ciascuno di scegliere una squadra diversa, perché le cose facili non ci piacciono per niente.
A quel punto, vengono messe in campo competenze di pianificazione e gestione delle risorse umane di altissimo livello, precettando nonni, zii, amici di famiglia e pure il cugino che ha appena preso la patente.
Se sei sfortunato, l’intero agognato fine settimana potrebbe essere sacrificato sull’altare della passione calcistica delle creature.
Se gli spostamenti sono impegnativi, una volta sul posto non è detto che ci si possa rilassare.
Che sia il torneo della parrocchia, una partitella amichevole o un decisivo incontro di campionato, pare che si debba giocare in ogni condizione atmosferica, almeno finché il pallone è in grado di rimbalzare sul campo senza essere inghiottito dal fango.
Mentre fuori infuria la bufera, chi vorrebbe davvero essere inghiottito nelle calde e asciutte viscere della terra sei tu, genitore fradicio e intirizzito, perché sai benissimo che al tuo giovane virgulto dalle ossa sane e forti basterà una doccia calda per tornare come nuovo, mentre tu non ti riprenderai fino al prossimo weekend.
Accadono poi episodi imbarazzanti, soprattutto se tu genitore non sei esattamente un appassionato di calcio e quindi ti trovi lì “per amore solo per amore”, ma la verità è che capisci sempre troppo tardi da che parte dobbiamo segnare.
Narra la leggenda che alcuni genitori, di cui non farò il nome e che assolutamente non scrivono su queste pagine, a volte si avvedono dell’ingresso in campo del proprio figlio solo quando lo sentono chiamare dall’allenatore o da qualche altro genitore che si trova lì con maggior cognizione di causa.
E poi, diciamolo una volta per tutte, non sempre il gioco vale la candela: il calcio segue delle regole spietate e potrebbe capitare che il tuo ragazzo resti a scaldare la panchina per buona parte della partita, mentre tu ti rammarichi per il weekend buttato alle ortiche senza neanche la soddisfazione di vederlo non dico vincere, ma almeno partecipare, con buona pace del Barone de Coubertin.
Insomma, oltre al danno, la beffa.
Eppure, qualche volta succede.
Proprio come nella canzone di De Gregori, quando meno te lo aspetti, in un campetto spelacchiato di periferia, succede che lui, il “tuo” Nino mette il cuore nelle scarpe: prende un pallone che sembra stregato, corre più veloce del vento, tira senza guardare e il portiere lo fa passare.
E lo vedi, stavolta lo vedi bene, che vola con le guance accese ad abbracciare i compagni e poi viene di corsa verso di te, si stampa contro la rete di recinzione e ti guarda ridendo con gli occhi che brillano.
In quell’istante a te, genitore innamorato, non importa affatto della vittoria; tu vedi solo il suo piccolo sogno, inseguito con passione e impegno, che per un momento diventa vero ed esplode in quella risata felice.
E capisci che quell’attimo vale il caldo, il freddo, la pioggia e i miracoli organizzativi che ti aspettano al varco, la settimana prossima e le successive, e così via fino alla fine della stagione, quando aspetteremo la prossima giocando a pallone sulla spiaggia, perché la passione non va in vacanza.
Ma poi, la verità è che, se anche quel momento glorioso non dovesse arrivare, a noi non importa: staremo lo stesso lì ad accompagnare, applaudire, incoraggiare o consolare, perché quello in cui crediamo da sempre, e che stiamo insegnando loro, è che non bisogna mai smettere di inseguire i propri sogni.