Eliud e la sua forza di correre oltre i confini

Abbiamo passato giornate intere a domandarci se l’uomo più caparbio del mondo avrebbe varcato la soglia dei 42,195m in meno di due ore, e adesso che è oro olimpico di maratona per la seconda volta non solo non ce ne meravigliamo, ma nemmeno ci interessa più di tanto.

Eliud Kipchoge ha vinto l’oro nella specialità Maratona alle Olimpiadi di Tokyo 2020/21 con il tempo di 2.08….e pochi spicci.

Ho visto il documentario girato per la Nike e da allora lo seguo con grande passione.

Un uomo fatto di carne e sangue, di muscoli e ossa, leggero, veloce, armonioso in ogni suo movimento, con un grande sorriso. Parla di passione Eliud Kipchoge.

Passione per la corsa.

Correre per la voglia di correre. In un territorio che è casa sua. A 2000m sul livello del mare, nella contea di Nandi, e qui mi fermo, perché addentrarsi nella geografia del Kenya è piuttosto complicato. C’è tutto. Mare, montagne, altopiani, deserto. Una palestra naturale fornita di ogni clima possibile che permette di prepararsi ad ogni tipo di avventura possibile.

Avventura.

Una parola stupenda che oggi persi nei telefonini abbiamo dimenticato. Noi fortunati, noi lati sul volto chiaro della luna con ogni mezzo a disposizione, sempre in cerca della struttura migliore, della pista perfetta, del fondo liscio e pianeggiante, abbiamo dimenticato la parola avventura.

Siamo sempre pronti a confonderla con la sofferenza, con la continua mancanza di qualcosa che bramiamo. Poi arriva un uomo il cui corpo è fatto di muscoli asciutti e ossa, con un cuore potente e allenato nella natura incontaminata e selvaggia e ci dimostra che tutto quello che i soldi possono comprare e tutte le attrezzature che possiamo desiderare ce le offre gratis madre natura.

Non mi riferisco all’ultimo modello di scarpe performanti a cui viene attribuito il merito dei suoi successi, né agli integratori di ogni forma e natura messi a disposizione dagli sponsor.

Come dice Sheldon Cooper in una delle prime puntate di Big Bang Theory:

il nostro corpo può assumere un certo quantitativo di vitamine e minerali, tutto quello che è in eccesso contribuisce solo a garantirti un’urina di alta qualità”.

La prima cosa che mi ha colpita di quest’uomo è stata il sorriso. Uno sguardo sereno e un sorriso sempre pronto a fare capolino.

I più cinici potranno pensare che sorriderebbe chiunque avendo la Nike alle spalle che ti spinge con un motore da milioni di dollari; quelli meno cattivi potranno dire che per quanto si allena avrà endorfine da consumare da qui all’eternità.

A me piace pensare che sia un uomo felice. Felice della sua famiglia numerosa, felice di correre per il suo paese, felice di aver conquistato una posizione, felice di correre per vivere.

“Fai della tua passione il tuo lavoro e non lavorerai un giorno in vita tua”.

Confucio la sapeva lunga ed aveva ragione.

In poche parole ci ha dettato la ricetta della felicità che traina il successo, che conduce alla realizzazione personale.

Un trend di eventi positivi in grado di sconvolgere qualsiasi oroscopo nefasto.

Senza scomodare i grandi della storia dell’umanità e ravanando nel mondo del cinema, che io amo da morire, mi viene in mente immediatamente Rocky Balboa e “gli occhi della tigre” di cui gli parla Apollo Creed quando lo allena a combattere contro Clubber Lang.

Gli occhi della tigre sono la sintesi della forza di volontà, della brama di ottenere il risultato che ci si è prefissati, non per essere migliore di qualcun altro, ma per essere il migliore. Tutto il resto sono conseguenze, effetti collaterali.

Quest’uomo ha gli occhi della tigre, la brama di alzare sempre più l’asticella ed essere il migliore facendo quello che più ama fare.

Allora cosa è successo alle Olimpiadi?

Eravamo forse ubriachi di medaglie e record al punto da dimenticare il nostro eroe che ci ha ampiamente dimostrato che si può andare sempre un metro più in la del nostro limite, qualunque esso sia? Io non credo.

Credo semplicemente che non abbiamo trovato nella sua performance quello che ci aspettavamo.

Volevamo vedere un sogno. Volevamo vedere gli occhi della tigre.

Avrei voluto vedere la lotta, il testa a testa.

La testa di un ragazzo che vince la staffetta per un decimo di secondo emozionando un paese intero. Ho visto una partenza omogenea, un gruppo compatto che va avanti per 30km. Qualcuno che ci prova e inesorabilmente si arrende.

Kipchoge comincia a staccare, non accade nulla, si allontana dal gruppo e ancora non succede niente, arriva al traguardo in 2h08’38”.

Fresco come una rosa.

Sereno come me in una giornata di shopping il giorno in cui ho preso lo stipendio. Non una goccia di sudore, non un alito di affanno. Taglia il traguardo senza gli occhi della tigre, con lo sguardo sereno, senza alcuna traccia di lotta.

La lotta contro se stessi e il proprio best, senza la volontà di fare di più, con la svogliatezza di chi ha già vinto senza troppo sforzo e non ha bisogno di dare di più.

Ha portato la sua gara al di fuori di se stesso, come chi ha la percezione che non ci sia gara e non importa spingersi oltre. Una bella divisa, un volto disteso e sereno, non una goccia di emozione suscitata in chi osserva.

Il risultato è stato che l’argomento principe della gara regina delle Olimpiadi è stato il gesto, profondamente antisportivo, dell’atleta francese che ha tirato giù tutte le bottiglie d’acqua prendendo l’ultima.

Il vero vincitore di questa specialità olimpica è stato il comportamento antisportivo.

Guardo le Olimpiadi da quando ero una bambina e con gli occhi di una bambina, profondamente ignorante in materia, ma travolta dall’emozione di tutti quegli atleti che combattono per ottenere l’eccellenza in nome e per conto del proprio paese di origine.

Da pochi anni mi sono appassionata alla corsa.

Velocità, fondo, mezzofondo, maratona e, per la prima volta in vita mia, non ho provato emozione.