“Ognuno è un genio, ma se si giudica un pesce dalla sua capacità di arrampicarsi sugli alberi, passerà l’intera vita a credersi stupido.”
Albert Einstein
Zero
Sono sdraiato a pancia in su nel letto di terapia intensiva del Centro Trapianti di Fegato di Cisanello, Pisa.
È ormai il 29 Novembre 2019, ma sono stato convocato qui il giorno 28.
I miei parametri vitali sono monitorati costantemente, c’è sempre almeno un infermiere nella stanza; ma non mi sono mai sentito così solo in vita mia. Vulnerabile.
Ci sono punti di sutura a tenermi insieme, tubi diversi che mi escono dalla pancia, sento le labbra secche e – credo senza volere – tengo gli occhi sgranati; ma sono calmo.
Riesco a muovere, un poco, la testa. Il resto quasi per nulla: zero energie, zero controllo, zero tutto. L’essermi svegliato è ben più importante, adesso. Il resto verrà.
Devo ripartire da qui: c’è una nuova vita in cui un donatore mi ha concesso di sperare, che un pool di medici mi ha permesso di vivere, e di cui parenti e amici devono ancora sapere.
Quarantadue
Sono in griglia di partenza alla Firenze Marathon; quella fucsia, in ultima fila. Mi fisso per un attimo sullo sguardo concentrato del David di Michelangelo.
È il 28 Novembre 2021.
Non ho molto in comune con lui: certamente non sono un eroe biblico dai muscoli poderosi, e non lo sarò neanche riuscendo a percorrere la distanza che mi separa dal traguardo.
Ma le vicende della statua, più di quelle del personaggio, mi dicono qualcosa. Che ho una battaglia da affrontare, non soltanto oggi, ma per tutta la mia esistenza, ad esempio.
Come quel pezzo di marmo, sono fragile; “male abbozatum et sculptum”, si diceva di lui. Sovrappeso e fuori forma a causa delle terapie cortisoniche e immunosoppressive, di me.
Condividiamo anche lo sbilanciamento del peso su una gamba, che vizia la sua staticità e l’appoggio dei miei piedi a terra, ad ogni passo.
E non ne devo percorrere pochi, oggi.
Ci furono grandi diatribe a segnare la storia di quell’opera, moltissime critiche – tipiche dei Fiorentini – e gravi difficoltà tecniche da superare prima di arrivare ad un risultato. Iconico.
Contro la mia iscrizione alla Maratona si son schierati quasi tutti. Anche solo camminando veloce, dopo sette rigetti d’organo, svariati infortuni e coi farmaci che assumo, non dovrei.
Ma una gara simile, che origina dalla consegna di un messaggio da parte dell’emerodromo ateniese, a due anni esatti dalla mia rinascita – per giunta nella mia città – dev’essere magica.
E un messaggio da consegnare ce l’ho, ed è forte e motivante: “Il trapianto è vita”, ed esprimere il proprio consenso alla donazione di organi e tessuti è tremendamente importante.
Ma ‘arrivare in fondo’ significa anche più di questo, per me: che si può fare sport se colpiti da una malattia rara, e che l’attività fisica porta al benessere psico-fisico, anche se soffrendo.
Parto per la mia battaglia, non epica, silenziosa. Lenta, o lentissima direbbe qualcuno; potrò gridare il messaggio che ho nel cuore solo tagliando quel traguardo, probabilmente.
Indosso una maglia con scritto ‘Transplanted Athlete‘, perché è quello che sono.
Ma ci sono anche i simboli di UNIAMO e ANED, perché sento di rappresentarle, a modo mio.
Sono la Federazione Italiana Malattie Rare e l’Associazione Nazionale Emodializzati-Trapiantati: la loro lotta non termina con una medaglia, e idealmente neanche la mia. Allora inizio.
Lungo la strada mi trovo tra persone che mi sorpassano, altre che mi sostengono, talune mi prendono in giro: ma non sono un corriere, non dovrei essere giudicato per la velocità.
Magari non sono neanche un corridore, e di fatto non mi sento tale. Ma sono determinato e voglio migliorare: se ne avrò la forza e il supporto ce la potrò anche fare. Comunque, vado.
Incontro i miei cari che dal margine della strada mi incitano e mi passano dell’acqua: la raccomandazione dei medici era di berne almeno il doppio del mio solito. Per non rischiare troppo.
E ogni giorno sono costretto a berne 5 o più litri, ma questa è un’altra storia; la mamma mi sorride con le lacrime agli occhi. Tutti poi si accodano a più mandate: mi seguono fino alla fine.
Perché in fondo, passando attraverso il sole, il vento, la pioggia, la grandine – sì, qualche piaga c’è stata – due costole rotte di cui mi son voluto dimenticare e i pareri contrari… ho concluso.
Per alcuni non avrà niente di incredibile, inaspettato, ispirazionale, interessante, intelligente. Non ho ascoltato i disfattisti prima, non lo farò con loro adesso. Su questo sarò adamantino.
Intravedendo il traguardo, decido di correre, ma correre davvero, gli ultimi metri: tra persone intente a fare shopping e camerieri ad allestire tavolini, ci sono ancora volontari al lavoro.
Cento(novantacinque)
Mi dicevano che gli ultimi centonovantacinque metri si corrono con le lacrime agli occhi; io li ho (per)corsi tra le mie e quelle di chi per due anni ha vissuto il mio calvario da vicino.
Con mio fratello che, annichilito dal fiatone, mi incoraggiava con: “Vai, vai, Nicco!”; mia nipote che riprendeva la scena e diceva: “Ormai è quasi fatta!”; mia sorella che urlava: “Daiii!”.
Tra le transenne accumulate e pronte per essere portate via, la più che comprensibile indifferenza generale e le tende dei soccorsi pronte ad attendermi per i controlli: ce l’ho fatta.
Non gridando: “Abbiamo vinto!”, come Filippide; non fermando il tempo sul mio tracker come i professionisti. Ma lasciandomi andare nell’abbraccio accogliente della mia metà più forte.
Quella che si è sempre sobbarcata il peso del mio percorso, del carico che mi porto sulle spalle, delle difficoltà di convivere con una disabilità invisibile. Della memoria del mio donatore.
Senza più fiato, senza fiatare; ma urlando fortissimo al mondo che si può fare. E che è bene farlo, per noi e per gli altri: donare, donarsi… diventare donatori. E persone migliori, lungo la via.
Niccolò Scelfo