Costanza Martinelli e il suo amore per la bicicletta (e per un ciclismo che non c’è più).

  • Prima assoluta al Giro di Sardegna 2006
  • Più volte prima assoluta alla Granfondo del Terminillo e al Pedalatium (percorsi lunghi)
  • Terza assoluta alla Nove Colli 2006 e quarta assoluta nel 2007 (percorso lungo)
  • Quarta assoluta alla Sportful 2006 e quinta assoluta nel 2005 (percorso lungo)
  • Due volte campionessa italiana Master strada
  • Campionessa italiana W2 nel Duatlhon
  • Nona ai campionati èlite nel 2003
  • 3 Giri d’Italia, 2 Milano-Sanremo, 2 Giri delle Fiandre, 1 Tour de France, 2 giri di Toscana, 3 Giri del Trentino e un numero incredibile di Granfondo portate a termine

E’ Costanza Martinelli, una forza della natura, una donna energica come poche: tre figli all’attivo, classe 1970, nata a Roma, Costanza (con cui ho anche avuto la fortuna di pedalare insieme nel mio passato ciclistico, ma questa è un’altra storia!) mi ha raccontato di lei, del suo amore per la bicicletta, della bellezza del ciclismo del passato, dei suoi incontri fortunati e del ciclismo di oggi, dove tutto è diverso e meno autentico.

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Costanza, ci racconti un po’ di te e della tua passione per la bicicletta?

La mia è stata senz’altro una vita di sport: da ragazzina ho giocato a pallavolo, ho fatto atletica e ho sempre avuto, di base, una passione per la bicicletta. Però, come tante delle cose della mia vita, il mio ingresso nel mondo del ciclismo è avvenuto per caso.

I miei genitori avevano una casetta a Santa Severa, e io, con una mtb di acciaio, nera, pesantissima (però bellissima!), facevo spesso la strada da Santa Severa a Tolfa e ritorno. Un giorno, lungo la salita di Tolfa, mi supera un gruppo numeroso di ciclisti (ho scoperto poi trattarsi del famoso gruppo Fatato di Roma) ed io, con la mia mtb, chiacchierando, inizio a risalire il gruppo, e anche a staccare parecchi di loro. E così conosco il grande Giuseppe Fatato (ndr. ciclista professionista dal 1978 al 1985,  titolare del punto vendita “Cicli Fatato” di Roma) e sua figlia Alessandra, ciclista anche lei. Mi dicono: “Se sei di Roma chiamaci al negozio che noi facciamo spesso uscite in zona Aranova”.  E poi: “Ma ce l’hai una bici da corsa??”.

Non me lo sono fatto dire due volte. Ho portato la bicicletta da corsa (che nel frattempo tenevo a Padova, dove per un periodo ho lavorato come restauratrice) a Roma ed ho fatto la mia prima uscita con il gruppo Fatato: 100 km!

Ancora ricordo che arrivai al parcheggio suonata come una campana, tant’è che mi scordai il casco per terra e, facendo la retromarcia con la macchina, lo presi in pieno facendolo praticamente esplodere!

Ma, casco distrutto a parte, quell’incontro con Peppe Fatato ha cambiato il mio rapporto con la bicicletta.

Da che facevo la cicloturista Peppe mi portò, di lì a pochi mesi – era il 2000 o poco prima – anzi “ci” portò, perché insieme a me da lì in poi ci saranno sempre anche Alessandra, la figlia, ed Emanuela Citracca (oltre ad altre ragazze) a fare le prime granfondo: il Giro del Lazio, la Ceramica Appia, la Nove Colli.

La Nove Colli in particolare credo sia stata una delle mie prime granfondo in assoluto: ricordo di aver superato Peppe e Alessandra su una salita e Peppe che mi diceva: “Vai, vai a tutta!”. Sono arrivata quinta assoluta sul medio. E dopo quella gara Peppe ci disse: “Se vi mettete sotto, l’anno prossimo vi porto a fare il Giro d’Italia”. E così ha fatto! Ma di questo ti racconto dopo.

Dopo un anno di èlite con Fatato sono passata alla Chirio Forno d’Asolo, dove sono stata un paio di anni, per poi passare alla squadra èlite della Lazio, dove ho corso fino ai 35 anni. Poi, purtroppo, ho avuto un problema virale importante e mi sono dovuta fermare.

Quando ho ripreso, nel 2006, sono passata a fare di nuovo le granfondo. Quelli, infatti, erano anni in cui il ciclismo femminile èlite era molto poco seguito, e io e le altre ragazze capimmo che le granfondo (che noi, da èlite, facevamo solo come allenamento) ti impegnavano di meno e ti facevano divertire di più.

E fino al 2009 (quando ho avuto il primo figlio) devo dire che mi sono levata belle soddisfazioni! Negli anni 2006-2007, nelle gare del prestigio a livello internazionale, come la Nove Colli, la Gimondi, credo di essere arrivata sempre tra le prime 5 assolute, e tra le prime 3 di categoria. Ho tanti bei ricordi.

Quando, dopo aver avuto i miei 3 figli, nel 2012 sono tornata a gareggiare, nel mondo delle granfondo era cambiato tutto, anche un po’ in peggio.

Le Granfondo dei miei primi anni da èlite, infatti, erano state qualcosa di “semplice”. Decidevi la mattina stessa se andare o no: ti iscrivevi, 10 euro, pettorale di carta sulla schiena, 200 partenti al massimo (tutti, o la maggior parte, ex corridori); al 90% ti perdevi durante i percorsi, perché non erano segnalati. Io spesso arrivavo al bivio medio/lungo con un bel gruppo numeroso, poi, amando le distanze lunghe, giravo e mi ritrovavo da sola, e facevo anche 70/80 km da sola. Spesso, per la mancanza di segnalazione, finivi per fare molti più km.

Erano delle avventure, più che delle gare!

Però il bello è che eri in mezzo a gente che sapeva di ciclismo, che aveva corso, che sapeva stare in bicicletta; per assurdo, nonostante tutto, erano gare meno pericolose.

E poi…a quel tempo, anche se eri forte, non eri nessuno.

Io, Alessandra Fatato, Emanuela Citracca, quelle insomma che nel Lazio partecipavamo alle granfondo, e che, diciamolo, eravamo veramente forti (se ripenso ai tempi che facevamo…), non eravamo nessuno, perché nessuno ci osannava.

Vincevi, andavi fortissimo, arrivavi con il secondo gruppo degli uomini? Passato il traguardo era tutto finito. Non c‘era l’intervista che ti faceva sentire importante, anzi gli amici che ti dicevano “Ma sei una pippa!”, o “Ma come hai fatto a staccarti là?”.

C’era anche meno stress, non c’erano i social: solo chi c’era lì sapeva che avevi vinto. E poi, altra cosa molto diversa da adesso, i gruppi con cui ti allenavi erano fatti di persone che ti insegnavano ad andare in bicicletta, perché erano quasi tutti ex dilettanti, o ex juniores, insomma gente che macinava ciclismo. Quindi per me, che non avevo un passato di ciclismo in casa (pur avendo un potenziale atletico altissimo), allenarmi con questi gruppi e partecipare alle gare era un grande allenamento: imparavo a stare a ruota, o a staccarmi e a cavarmela da sola.

Adesso le ragazze sono tutte scortate da gregari, non sanno neanche cambiare un copertone

Quante volte invece io ho visto Peppe Fatato lasciare la stessa figlia Alessandra da sola per strada!

Oggi il ciclismo amatoriale è fatto da gente che è salita in bicicletta a 40 anni, hanno tutti il preparatore, non hanno un passato ciclistico, e si sentono pure “’sto cavolo”, donne comprese.

Io lo dico sempre: sono stata fortunata, perché sono capitata nel ciclismo negli anni giusti e con le persone giuste, che mi hanno fatto conoscere un ciclismo che ancora oggi rimpiango perché era più vero, più umano, e fatto di gente che aveva tanto da insegnarti.

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Dopo essermi fermata tra il 2009 e il 2012 (quando ho avuto i miei figli), sono tornata alle gare, e ho trovato alla prima granfondo una marea di donne e, mentre io non sapevo chi fossero, loro mi salutavano (“Ciao!” “Che onore stare nel gruppetto insieme a te”, mi dicevano). Andavo in griglia e tutti sapevano chi ero, come mi allenavo, che tempi avevo fatto. E così, all’improvviso, da che avevo fatto grandi cose ma non ero nessuna, ero tornata dopo anni di stop e la gente mi salutava, mi riconosceva. “Ma che è?” mi dicevo “Sono diventata famosa e non lo so??”

Come adesso in fondo, adesso si sa tutto di tutti. E infatti le donne adesso vanno alle gare stressate, perché sanno già chi parte, chi sono le avversarie, come si allenano, i ritmi che fanno, se stanno in forma.

Ai tempi nostri non si sapeva niente. Spesso si decideva la domenica mattina stessa: “Ma che facciamo? Ci andiamo ad allenare o andiamo alla granfondo?”. Ecco, questo era l’approccio, figuriamoci se avevi l’ansia per una gara. Non esisteva proprio, era un allenamento come un altro.

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La preparazione èlite, invece, era stata molto più impegnativa e lunga.

Portarci a fare il giro d’Italia aveva richiesto una programmazione importante: eravamo seguite da un preparatore atletico, andavamo in palestra, facevamo dei test, avevamo dei parametri cardiaci con i quali allenarci.  Di base, per prepararsi ad una gara a tappe come il Giro d’Italia, bisognava fare minimo 600 km a settimana; quindi noi uscivamo praticamente tutti i giorni, e macinavano tanti, ma veramente tanti km.

Spesso si faceva il lungo il lunedì dopo la granfondo della domenica, per abituare il fisico a fare un lungo sulla fatica della gara del giorno prima.

Più in prossimità dell’estate si faceva il doppio allenamento, due ore la mattina due ore il pomeriggio. Il primo anno credo che Peppe ci fece fare qualcosa come 40 corse e 30.000 km in bicicletta.

Siccome poi Peppe ci diceva (ed aveva ragione) che ciclisticamente eravamo a zero, per allenarci alle prima corsa èlite, che fu di marzo a Bologna (era un circuito piatto di circa 90 km, un tipo di gara molto difficile, perché se ti stacchi ti fermano), ci fece fare tante uscite e tante corse insieme ai cicloamatori – ma erano tutti ex dilettanti o juniores, come dicevo prima.

E quando eri riuscita a reggere le corse degli uomini, partendo con i giovani, ecco, lì sapevi che avevi trovato il ritmo delle donne èlite, sapevi che eri pronta per andare a correre.

E quando facemmo questo primo circuito di Bologna noi 3 (io, Alessandra Fatato e Emanuela Citracca), e tutte e tre riuscimmo a finirlo, alla fine della corsa ci abbandonammo a lacrime e pianti di gioia. E così anche quando finimmo tutte e tre il primo giro d’Italia, dove avevamo sempre la paura di finire fuori tempo massimo. Riuscire a finirlo tutte e 3 fu una grande soddisfazione. L’ultima tappa non me la scorderò mai, una cronometro individuale da Padova a Venezia, fino a Rialto, fu una grandissima emozione.

Quando ho corso con la Chirio, poi, altra esperienza indimenticabile, mi sono trovata a correre con delle vere regine del ciclismo, come la Cappellotto, o Marina Chirio. La Cappellotto quell’anno vestiva la maglia di campionessa italiana ed era l’unica italiana all’epoca ad aver vinto un mondiale. Alla Lazio ho corso invece con Silvia Parietti, con la quale vincemmo il campionato italiano èlite. E ho conosciuto molto bene anche la Zinaida Stahurskaia, che poverina è morta: era una grandissima atleta. Tutte queste donne che mi hanno davvero insegnato tantissimo.

Ripeto, io sono stata fortunata, perchè nel mio cammino ciclistico ho incontrato le persone giuste, che mi hanno insegnato soprattutto l’umiltà, e oggi, quando vedo questi amatori o certe donne cicliste con una spocchia e una presunzione incredibili, rimango esterrefatta.

Perché io non scorderò mai una Cappellotto che esce dal gruppo per aspettare me che avevo bucato, o una Stahurskaja che mi insegnava cosa guardare in una bicicletta prima di partire, come tenerla, come pulirla. Sono cose che ti porti dentro, ricordo di un ciclismo passato, e che sono felice di aver vissuto.

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Grazie Costanza, è stato un piacere ascoltarti.

Claudia De Arcangelis

 

Claudia De Arcangelis
Mi piace essere un punto di riferimento per chi, già unito dalla passione per la corsa, ha voglia di condividere tempo, chiacchiere e risate con gli altri. Mi diverto ad organizzare occasioni di incontro, di cene, di viaggi o di camminate in compagnia tra le bellezze della città eterna.