Sono andato dal mio nutrizionista di fiducia. Quando ci torno dopo un lungo periodo di assenza, nel profondo so che non posso mentire. Di fronte a questa figura quasi mitologica devo essere onesto, aprendo il cuore e chiudere lo stomaco.
Ricorda: lui conosce più cose di te di quante tu stesso sappia. È un baluardo, un punto di riferimento non solo per la tua vita atletica, ma anche per quella quotidiana. È il cardine attorno al quale ruotano le tue incertezze, le paure e le ansie legate al cibo.
La visita di controllo post-vacanze ti trova in una delle seguenti due condizioni:
- hai mangiato di tutto negli ultimi tre mesi;
- hai mangiato di tutto negli ultimi tre mesi, ma non ti importa.
In entrambi i casi, più che un controllo nutrizionale, diventa una seduta psicologica: un tentativo di compensare gli spritz, le sagre, le feste fino a tarda notte, e l’immancabile “mangiamoci qualcosa” pronunciato dall’amico ubriaco e molesto.
Quando sali sulla sua bilancia, sei convinto che quella di casa sia più precisa e meno severa. Ti convinci che perfino le mutande che indossi facciano la differenza, e ti giustifichi dicendo che “è proprio una giornata no”.
Ma lui, impassibile, ti osserva serafico e decreta cosa dovrai mangiare nelle prossime quattro settimane. Tra ansia e frustrazione, lo saluti senza riuscire a guardarlo negli occhi.
Uscendo dal suo studio ti senti come un eretico dopo la Santa Inquisizione, stringendo tra le mani il foglio con la nuova dieta. Triste, sconfortato e stanco.
Rimpiangi i litri di birra con gli amici, le cene salentine, i rifugi alpini a Ferragosto dove ti convincevi che faceva freddo e dovevi “reintegrare”.
La visita dal nutrizionista è un dramma umano moderno: è una resa, la Waterloo di chi, superati i cinquant’anni, vede il tramonto avvicinarsi. Solo la lasagna di mamma potrà salvarti da un immeritato esilio dalla tavola di casa.